L’Italia e i suoi avversari raminghi. Storia di allievi e maestri

Posted By on Ago 31, 2019 | 0 comments


Di Matteo Quaglini

Nell’immediato dopo guerra l’Italia si rimise in marcia, e con essa anche quella del pallone. Riprese così il nostro confronto con i maestri dell’Est Europa e fu uno scontro difficile, ma anche avvincente. Quando tornano i primi confronti internazionali, nel 1946, l’Europa è ancora scossa dagli orrori di una guerra devastatrice. Il calcio e la pallavolo cercano di riportare un po’ di vita e un po’ di gioia tra la gente uscita ferita nell’anima e nel cuore. Il calcio è di tutti, la pallavolo solo di alcuni ma entrambi segnano il tempo ludico di una società che vuole tornare a sorridere.

Nella pallavolo gli anni ’40 sono ancora quelli in cui siamo allievi e non maestri. Stiamo imparando e cercando di apprendere dalla scuola depositaria del tempo, quella Cecoslovacca. I cecoslovacchi introducono un fondamentale tecnico che orienterà il gioco, cambiandolo: il bagher. Con questa tecnica vinceranno il primo campionato del mondo nel 1949, l’Italia è arrivata terza all’europeo dell’anno prima ma non possiamo ancora sfidare i grandi maestri guardandoli in faccia. Dobbiamo apprendere.

Nel calcio, invece, la nostra grandezza è già scritta sugli annali. Due volte campioni del mondo battendo i guardiani del gioco danubiano, l’Ungheria e la Cecoslovacchia. Due allori che ci permettono di diventare una scuola calcistica sovvertendo con il Metodo la tattica imperante del Passing Game e del Sistema. I successi all’Olimpiade del 1936 e nella coppa internazionale del ’30 e del ’35, dicono che da allievi siamo diventati maestri.

Gli europei dell’Est non se ne ebbero a male, da uomini di mondo, da viaggiatori prima raminghi e poi sedentari sapevano che avevano ancora molto da dare all’economia del gioco e che noi, pur campioni, avremmo dovuto imparare altri fondamentali dettagli del calcio.

Il primo momento importante in cui l’Italia torna protagonista nell’università del calcio internazionale fu l’11 maggio 1947 a Torino ci viene a trovare l’Ungheria nelle cui fila c’è già il capo della colonna magiara. Per l’esercito e la squadra Ferenc Puskas era il colonnello. L’erede di Sarosi, il più grande tra i fuoriclasse di una squadra che ha fatto epoca.

Quella di Torino fu una vittoria per 3-2 ingannevole sul piano di quella che doveva essere la costruzione tattica più idonea ai tempi di un squadra. Un nuovo calcio era all’orizzonte, una nuova impostazione di gioco stava per determinare il calcio del dopoguerra, non saremmo stati più l’avanguardia del Dio pallone. Si trattò di una partita di frontiera. Per via del contesto storico, per via che il maestro ti insegna anche quando non te ne accorgi, per via che qualche vantaggio sotto forma di vittoria te lo da per farti credere più in te stesso, per via che il calcio come lo sport e la vita conservano ma anche rinnovano.

Il Sistema, inteso come schieramento tattico, perde ma è pronto a segnare tredici anni di calcio italiano fino al 1960 quando con Nereo Rocco e Helenio Herrera il catenaccio e il contropiede ci riporteranno sulla cima dell’Europa. Per ora, 1947, il calcio danubiano ci ha portato davanti a una nuova frontiera, lo schieramento con tre difensori, quattro centrocampisti (due mediani difensivi e due mezzali creative in un quadrilatero da storia militare), tre attaccanti, due larghi e uno centrale.

Infatti battiamo gli ungheresi schierando il Metodo 2-3-5, ma il fenomeno tecnico è un altro. I giocatori che quel pomeriggio indossano la maglia azzurra dei moschettieri sono quelli del Grande Torino, che rovescia se stesso e per la prima volta in quattro anni di trionfi si dispone sul campo senza il suo classico 3-2-2-3, il modulo che l’ha reso grande.

E’ una formazione importantissima quella, perché spiega l’incidenza sul gioco degli incastri tattici. Come sosteneva Jacques Le Goff e con lui altri grandi storici della scuola francese, non si può pensare che un’epoca storica sia cambiata se non ci sono tratti diversi e nuovi dal periodo precedente. Così nel calcio, per via di tale principio, questa partita segna come il tempo del Metodo sta finendo ma non ancora. E, al contempo, che un altro modulo guiderà il football europeo. Il cambiamento di epoca tattica non è ancora definitivamente terminato ma sta arrivando prepotente, grazie a una scuola che dall’Est e dall’Inghilterra fa già da riferimento.

La formazione dell’Italia racconta altre due cose però. La prima è che il Grande Torino era

veramente immenso: grandi giocatori che avevano ripreso l’idea di Herbert Chapman e rovesciati dai convincimenti conservatori di Vittorio Pozzo, avevano vinto col modulo di un calcio che non conoscevano. Questa formazione: Sentimenti IV, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Valentino Mazzola r Ferraris II, è una formazione di frontiera. Lo scontro con i maestri ci insegnò l’importanza e la forza della flessibilità dei moduli.

La seconda cosa è che quel Torino vinse la partita nella partita con l’Ujpest, la squadra di club che componeva – come i suggestivi granata – il grosso delle forze magiare. Battere due volte e con due anime diverse gli avversari nella stessa partita è roba da campionissimi alla Fausto Coppi o alla Gino Bartali.

Affronteremo l’Ungheria di Puskas ancora una volta, nel maggio del 1953 a Roma. Il contesto era quello della coppa internazionale un campionato europeo ante litteram, giunto in quei primi anni ’50 alla sua quinta edizione. Troppa forti i magiari per andarli a prendere sul loro terreno fatto di un gioco in cui la classe è il fondamento dell’eccellenza. Perdiamo 3-0 e inauguriamo con una sconfitta lo stadio Olimpico di Roma. La grande Ungheria ci ha insegnato che siamo indietro, il nostro calcio in quel momento si sta rimescolando e i punti di riferimento seppur storici sono instabili: la Juventus ha vinto lo scudetto del ’50 dopo quindici anni di astinenza, nel frattempo è nato il Milan come grande squadra metropolitana con il mitico Gre-No-Li, l’Inter dei pochi gol fatti e dei pochissimi subiti è campione in quell’anno, ma l’Ungheria con i suoi cavalieri magiari Czibor, Kocsis, Bozsik, Grosics e i pilastri Hidegkuti e Puskas, mente e braccio secolare della squadra guida di metà anni ’50, ci dice con la sua superiorità che siamo ancora il calcio degli Stati Territoriali.

Un calcio diviso dove ognuno va per la sua strada. Loro erano l’Honved come un tempo noi fummo il Torino, anche ma non solo su quest’idea nacque per risposta un altro grande concetto, il magistrale calcio all’italiana.

Dopo la Grande Ungheria valichiamo il guado e affrontiamo l’ultima frontiera che i professori del calcio danubiano ci mettono di fronte, un nome per tutti Jugoslavia. La squadra che per esperienze storiche e scelte politiche racchiude in se mondi diversi, ci sono: croati, serbi, macedoni. Segneranno fortemente il nostro destino orientandolo su allori mondiali.

Intanto però nel maggio del ’55 (il mese del de profundis napoleonico si ripete come un mantra arcigno da superare per noi italiani) sempre nella Torino un tempo prima capitale d’Italia, perdiamo di brutto 4-0 una partita valida per la 6° coppa internazionale. E’ la prima vittoria della Jugoslavia contro di noi, tra le sue fila gioca una mezzala che darà molto al calcio italiano. Un gitano, laureato in storia, che conosce il mondo e che gestirà campioni come Vialli e Mancini liberandone la fantasia e vincendo uno storico scudetto negli anni del Milan padrone del gioco e del campo, del Napoli maradoniano e dell’Inter del fordista di scudetti Trapattoni. Il suo nome è Vujadin Boskov.

Il calcio slavo e due cose in una: classe e durezza. Non li batti facilmente, non è gente abituata a cedere alla prima difficoltà. Come racconteranno alcuni cantori della storia del mondiale di pallavolo 1998 in Giappone, i fratelli Vladimir e Nikola Grbic combattono per la bandiera che ha subito vilipendi grandi e sanguinosi. Impariamo, dunque, mentre ci danno uno storico 3-0 nel girone eliminatorio, che bisogna lottare su ogni pallone e in ogni momento. E’ un piccolo e al tempo stesso grande insegnamento, che metteremo in pratica in due grandi Italia-Jugoslavia di calcio e pallavolo con Angelo Domenghini a Roma e con Samuele Papi, Fefè De Giorgi e Marco Bracci nella finale di Tokio.

Prima di valicare l’ultima frontiera di queste partite con i raminghi per eccellenza del gioco, con i brasiliani d’Europa, dobbiamo ricordare due tasselli che ci insegnarono l’importanza nello scegliere i giocatori. Più che la finale per il terzo posto giocata a Napoli nell’estate del 1980 e persa ai rigori con la Cecoslovacchia campione d’Europa in carica che recita l’ultimo atto di grandezza nel football internazionale dei maestri danubiani guidati da Panenka, fu importante un’amichevole con la Jugoslavia due anni prima nel maggio del 1978 all’alba del mondiale d’Argentina.

La frontiera è di nuovo dinanzi al calcio italiano. L’Italia prepara il mondiale e Bearzot ha già scelto l’undici titolare. Ci sono i giocatori del blocco Juventus la squadra bi campione d’Italia in carica (1977 e 78) e giocano anche due “esterni” al monolite juventino: Aldo Maldera del Milan targato Liedholm, uno dei migliori rappresentanti tra i terzini d’assalto e Francesco Graziani centravanti del

miglior Torino del dopo Superga. Qualcosa però contro gli slavi, che non voleranno in Argentina, s’inceppa: finisce 0-0 tra i fischi un Olimpico che per la prima volta nella storia della nazionale abbandona gli azzurri nella difficoltà.

La critica ci va giù pesante. Il gioco latita, la squadra è lenta, gli altri ci hanno nascosto il pallone. E poi, e poi in nazionale Maldera non tira come nel Milan e gli 8 gol segnati nel campionato appena concluso non ci sono per azzurra. Mancano le reti, il fine ultimo del gioco. La difficoltà però, come sempre se si sanno trattare, hanno dei risvolti vincenti. Bearzot rimette mano alla squadra e la lentezza dimostrata con la Jugoslavia, diventa velocità con l’ingresso in squadra di Antonio Cabrini e Paolo Rossi che a Buenos Aires farà le prove generali per Madrid 1982.

C’è stato di tutto in queste partite: la sovversione di un impianto di gioco consolidato per abbracciarne un nuovo, lo spunto tecnico per costruire un campionato più forte, l’importanza di vincere i duelli individuali come nelle grandi pellicole western, il concetto di cambiare se una cosa non funziona bene, perché il dogma è comunque un pericolo.

Ora manca solo l’atto terzo di questo confronto ramingo: gli ultimi due Italia-Jugoslavia. Nel calcio saranno due sfide complesse da clima dei tempi, sessantottine. Sovvertitrici di ordini che sembrano acquisiti durante la partita, dunque. Nella pallavolo saranno due gare spartiacque che faranno pendere la bilancia mondiale dalla nostra parte, consacrandoci come una delle scuole pallavolistiche della storia. Non poteva che essere la storia, infatti, la protagonista di uno scontro universale con gli allievi che diventano i maestri dei grandi raminghi.

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