I re del gol, gli eredi di Rombo di tuono

Posted By on Nov 9, 2020 | 0 comments


di Matteo Quaglini

Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare. E’ un’immagine suggestiva che va bene per qualsiasi ambito, soprattutto quello sportivo. I duri nel calcio e nella pallavolo sono due: il centravanti e l’opposto. Gli uomini da duello western. Quelli che con un colpo risolvono la partita. In centravanti come Gunnar Nordahl e Gerd Muller c’è stato sempre, su ogni pallone catapultato in area, il fuoco sacro della vittoria racchiuso dentro un tiro potente o una girata rapida. In opposti come Zorzi e Despaigne c’è stata sempre su ogni alzata all’indietro dei palleggiatori, l’assalto all’arma bianca sulla palla. Gesti tecnici entrambi aggressivi e potenti, sintesi perfetta della straordinaria capacità di fare gol o punto.

Se centravanti e opposti fossero figure storiche, forse sarebbero cannoni di Wagram lanciati, con una palla in verticale o una “svassoiata” del palleggiatore, verso il fronte nemico per romperne le fila. Napoleone che era un centravanti nato, li impiegherebbe così. O se fossero frammenti della cinematografia forse sarebbero duri come l’ispettore Callaghan o taglienti come la katana di Kill Bill. I dieci rifiniscono e ricamano, loro concludono e vincono. Nell’economia del gioco sono fondamentali e decisivi con i loro guizzi individualisti che chiudono il lavoro collettivo di una squadra di calcio come di una di pallavolo. Eremiti per minuti e campioni nell’attimo.

Dal 1980 in poi questo parallelo tra i due ruoli è possibile. Prima no, perché nella pallavolo internazionale dominava l’Urss dell’universalità dei ruoli, tutti fanno tutto. L’opposto, quindi, era uno dei quattro o cinque ricettori. Poi vennero gli americani del self made man anche nello sport collettivo e nacque la specializzazione e con essa: l’opposto. Quello che tira a tutto braccio senza pensare alle mani del muro avversario.

Il centravanti nel calcio, invece, c’è sempre stato, sin dagli albori quando gli attaccanti erano nove. Il ruolo immortale del bomber ha avuto alcune rivisitazioni tecniche sofisticate e suggestive in Di Stefano e van Basten, in Hidegkuti e Meazza, centravanti che hanno giocato per il gol e per la rifinitura, un po’ numeri nove, un po’ dieci. Grandi campioni che hanno ripreso la filosofia sovietica e dell’Europa dell’est dell’attaccante che prima partecipa al gioco e poi lo finalizza. Un principio tecnico che Cruijff e Totti hanno esaltato diventando “profeti del gol”.

Gli opposti, invece, non hanno mai variato la loro conformazione tecnica. Non hanno scelto la rapidità fulminea nel girarsi di Romario o di Messi, non hanno mai privilegiato il pallonetto corto come se fosse un gol sotto porta del rapace Filippo Inzaghi. E non hanno, nemmeno mai, preferito i colpi spettacolari da fuori area di Shevchenko. Loro, gli opposti alla Grozer o alla Fomin, hanno sempre optato per il bombardamento dell’avversario. In Italia ne abbiamo ammirati molti di tiratori a tutto braccio. A Roma ha giocato per tre periodi diversi Osvaldo Hernandez, un campionissimo. Cubano potente e agile, atleta olimpico nel salto e attaccante di razza. Uno che ha racchiuso, in questo gioco d’immaginazione centravanti come Guaita, Chinaglia, Prati, Batistuta, Pruzzo, Vieri, i sei fuoriclasse del gol nelle due rive eretiche del Tevere.

Se Hernandez è stato un trascinatore come i centravanti delle imprese immortali di Roma e Lazio,  Steve Timmons l’esarca americano che insieme a Kiraly ha governato l’altra capitale della pallavolo Ravenna, è stato il Paolo Pulici della mitica Messaggero. Acrobatico come Paolino, che del colpo di testa a volo d’angelo è stato il re.

Nei giorni del compleanno di Riva, il rombo di tuono tra gli opposti nella pallavolo potrebbe essere Joel Despaigne, altro asso cubano ultimo ad arrendersi nel finale del mondiale 1990 contro l’Italia di Velasco, e con lui Andrea Zorzi. Come l’immenso Gigi Riva attaccavano mulinando le gambe e i passi facevano rumore durante la rincorsa d’attacco. Sembra di vederli insieme Riva, Despaigne e Zorzi mentre alti in volo, inattaccabili e maestosamente soli, schiacciano o calciano in rovesciata la palla della vittoria.

Ai nostri tempi, gli anni 2000, dalla Serbia è arrivato in Italia un fuoriclasse della pallavolo moderna: Ivan Milikovic. Il simbolo della grande pallavolo slava riconsegnata ad un’epoca finalmente dorata dai vent’anni di rally point system al motto di chi tira più forte vince, sempre.

Ivan col suo nome da re autocratico ha avuto la potenza nelle gambe di Rummenigge e la determinazione ossessiva per il punto di Cristiano Ronaldo, e come i due più grandi centravanti esterni del calcio moderno ha giocato sempre e solo per vincere. Da grande guerriero serbo ha avuto nelle pieghe del suo stile di gioco la classe essenziale di Careca e la partecipazione totale di Marco van Basten.

E oggi? Chi è che ci suggestiona con un singolo attimo dopo decide minuti e minuti di una partita? Vari i nomi: Lewandowski, Ibrahimovic, Dzeko, Suarez e Cavani nel calcio continentale e Zaytsev, Il brasiliano Wallace, Aleksandar Atanasijevic da Belgrado, la città della grande e fascinosa Stella Rossa, fino risalendo più a Nord, nella città che gli Zar amavano per la sua cultura: Mihajlov da San Pietroburgo nella pallavolo.

Slavi e sudamericani, fateci caso. Il gol o il punto che vale un titolo vengono da poli opposti che si toccano nell’Europa continentale. Tutti insieme sono i re del gioco diretto, della conclusione precisa e letale. Un ritorno alle origini del gioco dopo gli anni dello “spazio” e dell’universalità dei ruoli. Quando Julio Velasco a metà anni novanta sosteneva, in una storica disputa con Platonov, la centralità dell’attacco tutti gli addetti ai lavori e gli appassionati si guardavano esterrefatti. Com’era possibile dicevano: se domina il modello americano della ricezione e dell’attacco distribuito tra tanti giocatori? Velasco era già avanti, guardando com’è proprio dei grandi alla storia dei giochi sportivi collettivi. Oggi, non è un caso, la figura del centravanti e quella dell’opposto sono di nuovo centrali nel gioco.

L’istinto di Icardi dentro l’area, la forza di Mihajlov, il grande russo che a suon di schiacciate ha riportato la Russia tra le grandi d’Europa, ridandole la gloria perduta. La potenza di Zorzi, le acrobazie di Vialli, il duello ingaggiato con difensori e portieri di Meazza, l’irruenza di Bobo Vieri. Tutti centravanti e opposti depositari del fascinoso totem del gol o del punto partita. Lo stesso che realizzò Olof van der Meulen opposto dell’Olanda a Barcellona ‘92 quando con una schiacciata finale estromise il Dream Team di Velasco dalla vittoria. Con quell’azione da centravanti a battere i più grandi, ribadì quello che prima di lui tutti questi immaginifici della vittoria avevano trasmesso a generazioni di tifosi impazziti per ogni loro gol o punto: il sogno da bambino di ciascuno di noi di fare una volta almeno nella vita l’attaccante è giusto. Perché l’occasione di fare gol o punto arriva. Bisogna solo stare lì e coglierla, da centravanti o da opposto.

 

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