di Matteo Quaglini
Milan l’è un grand Milan. Così i milanesi doc, i meneghini che amano la nebbia, le giornate uggiose, il duomo, e il parlare d’economia, così dicevamo hanno sempre rappresentato Milano, con il manifesto della grandezza.
Lo sport non è stato esente da questa logica di un racconto alto di sé e della propria storia da vincenti. Già loro erano i vincenti per antonomasia, in Italia all’epoca degli olandesi volanti e degli italiani eretici all’ortodossia tattica e all’epoca, anch’essa poi epopea leggendaria, degli invincibili di Don Fabio Capello.
Due scuole, quattro con quelle di Nereo Rocco e Carlo Ancelotti di Milanismo da rivoluzione francese aperto al talento e alla realizzazione di sogni e visioni, senza la paura dell’ostacolo, sempre oltre il limite, sempre giocando in avanti verso l’orizzonte della vittoria. Erano università dello sport, e del calcio. Erano le invenzioni rivoluzionarie alla Leonardo Da Vinci. Erano suggestioni, però reali. Più nel calcio che nella pallavolo.
Silvio Berlusconi creò la Mediolanum in onore al nome della genesi nel mondo antico e nel farlo, la volle subito in corsa per la vittoria. Una galleria di fuoriclasse da Zorzi a Lucchetta, da Galli a Doug Beal il Rinus Michels della pallavolo. Uno più grande dell’altro ma non bastò per vincere solo e sempre secondi, troppo poco per chi vuole essere immortale nella memoria degli altri.
Poi i tempi della gloria finirono perché anche Augusto e Alessandro Magno hanno lasciato i loro imperi a nuovi sognatori, e così vennero inevitabili i giorni di oggi, quelli di una noiosa normalità. Quelli del decadentismo. Quelli dell’ovvio. La storia che torna, malinconicamente, cronaca.
Il Milan oggi è ottavo in classifica ha vinto come perso (10 contro 8) e segnato e subito lo stesso numero di gol, 30. Il segno del grigiore e dell’essere monocordi. La Reviere Milano è settima ha vinto 10 volte ha perso 10 volte, ha come il Milan di Gattuso un progetto a lungo termine, guarda al domani mentre sale ripido il passo del San Bernardo, come facevano i francesi prima che arrivasse Napoleone e le cose, di colpo, cambiassero.
Si tratta di due squadre alla ricerca dell’identità tecnica, del gioco, e dei giocatori. Intanto hanno gli allenatori: Giani e Gattuso. Due grandi giocatori, diversi, che sono passati al di là della linea laterale, per allenare. Il fuoriclasse che venne scoperto in una spiaggia a Sabaudia ha molta più esperienza del Ringhio che rincorreva, non facendoli giocare, i numero dieci di mezza Europa. Giani, il nazionale con più presenze nella storia della pallavolo italiana, ha cominciato a Modena che vuol dire allenare la Juventus al pronti via, non andò bene. Poi Roma, la Slovenia per la prima volta portata, nel 2015, a una finale europea, la Germania battuta la scorsa estate solo per due punti dai mammasantissima russi. Un carriera che cresce e che ha un nuovo sogno, come nella filosofia della Milano che produce e gioca per vincere. Un sogno chiaro, fare di Milano una città della pallavolo, spostando così la geografia dalle Marche, dall’Emilia, da Trentino, alla Lombardia.
Gattuso si è trovato dentro un percorso diverso e più tortuoso, perché Giani ha avuto tempo mentre lui deve correre e in salita per giunta. Entrato, in corsa, a Montella mai amato dai suoi, deve ricomporre una squadra, anzi deve costruirne una. Al di là dei risultati ci sta riuscendo perché il suo Milan è più compatto, capace di lottare, meglio messo in campo, resiliente dopo le Waterloo dal nome di Benevento e Atalanta e della solita, immancabile Fatal Verona. Anche i giocatori sono comparsi, non definitivamente, non saldamente, ma almeno qualche segno lo danno: Bonucci, Kessie, Calhanoglu, Suso.
Si gioca, ed è già un passo avanti. Si gioca come cerca di fare la Reviere Milano copiando l’atteggiamento, la mentalità che aveva da giocatore Giani: mai arrendersi, mai finita, mai l’attenzione sull’errore ma la concentrazione sulla risposta all’errore. Un percorso diventa grande quando si sa invertire la rotta, sempre.
Abdel Aziz Nimir l’opposto, il centravanti della squadra di pallavolo è l’uomo simbolo della squadra e non è un caso che sia un attaccante. Milano per sognare ha sempre voluto il grande attaccante, quello che nel gioco come nella vita sbaraglia gli avversari con un colpo, un tiro, una girata o una schiacciata lunga a battere i migliori “liberi”del mondo.
Ecco, al Milan del calcio manca il monarca della sua tradizione, il centravanti. Giani, invece, già ce l’ha, è questo il segno della differenza milanese tra calcio e pallavolo al giorno d’oggi, la presenza di qualcuno che attui l’idea. Ecco alla fine la Milano sportiva di oggi, una città con un’idea ancora sopita, ancora grezza, ancora timida e non visionaria. Affinché Milano torni lassù ad imperare ci vuole la visione, il sogno, l’idea che va oltre l’ostacolo e , ci vogliono i giocatori quelli capaci di andare oltre il muro del non posso. Giani con il belga Klinkenberg, il tedesco Schott, lo sloveno Cebulj, l’Hamisk della pallavolo, sogna e costruisce, Gattuso invece ancora cerca il nove giusto tra Kalinic, Silva e speranze del mercato estivo che verrà. La pallavolo a Milano è più avanti del calcio, Lucio Fusaro è dentro un lavoro per ora più concreto di quello di Li Yonghong. Con Sora e Spal questo fine settimana ne sapremo di più su quanti sogni a per il domani, Milano. Per ora Milan l’è un grand Milan rimane storia, in attesa che i suoi uomini tornino a ragionare come la cavalleria napoleonica: ad andare a prendersi il sogno, cavalcando. Già, ma lì c’era Gioacchino Murat, il grande centravanti o l’opposto.