Matteo Quaglini
Arrivano da lontano e si chiamano stranieri. L’antica lingua latina ci spiega la loro diversità. Mentre inseguono un pallone o lo aspettano in aria sono, per tutti compagni e avversari, “extraneus” degli estranei, degli esterni. Provengono da altre nazioni, hanno un’altra cultura nel vivere la vita, interpretano le cose in modo diverso rispetto al luogo del loro approdo. E per questo risultano essere affascinanti, perché costituiscono la naturale differenza di una squadra. Il tratto che tutti gli altri non hanno e che ha il compito di mettere la prua della nave avanti a tutte le altre.
Sia la Juventus che la Panini Modena hanno, nel corso della loro lunga storia sportiva, chiamato a raccolta questi Hontario Nelson del gioco, questi Francis Drake corsari delle aree di rigore come della rete che delimita il campo nella pallavolo. Del primo i Charles, i Quiroga, i Platini, i Ricardo Garcia, i Sivori e i N’Gapeth, hanno avuto la spregiudicatezza di cercare con insistenza la vittoria. Del secondo hanno immortalato, in ogni partita, il senso avventuroso dell’azione, la scaltrezza nel giocare il pallone, il genio che come diceva Gastone Moschin alias Rambaldo Melandri in “Amici miei” del maestro Monicelli, è visione e colpo d’occhio, fantasia e velocità d’esecuzione. La stessa velocità imprevedibile e imprendibile delle punizioni di Le Roi Michel o dei colpi fantasiosi dell’altro francese della grandeur, messieu magic Earvin N’Gapeth.
Si tratta quindi in alcuni casi di ammiragli, di corsari in altri, di giganti buoni o di raminghi talentuosi che nella loro indisciplina e nell’idiosincresia alle regole hanno trovato se stessi e hanno fatto fare alla squadra il salto di qualità, portandola alla vittoria.
Quando la Juventus acquistò Platini, per un tozzo di pane disse l’avvocato riferendosi ai 250 milioni di lire del 1982, la squadra veniva da due scudetti consecutivi vinti all’ultimo respiro sugli oppositori di allora dell’ordine costituito, la Roma e la Fiorentina. Sembrava dunque che la Juventus non avesse bisogno del talento snob ma efficace della stella di Nancy e Saint-Etienne. E invece l’avvocato aveva visto lungo come sempre: Michel Platini è stato, per la Juventus, quello che Napoleone è stato per i francesi, l’uomo nuovo, il portatore di un calcio rivoluzionario basato sull’assunto che l’estetica del tocco potesse convivere e avere forza con la pragmatica con l’ottenere cioè le cose.
E i risultati non sono mancati. Si consolidò la Juventus europea, si aprì una costruzione di squadra che prevedeva il 10 in un doppio ruolo quello di regista e attaccante come poi sarà con Roberto Mancini, Alessandro Del Piero e Francesco Totti, come l’imperatore dei francesi anche Le Roi ha portato fuori dai confini i suoi compagni d’armi.
Lo stesso che ha fatto a Modena Earvin N’Gapeth, il martello delle magie pallavolistiche. Estroverso e capriccioso, iconico e dedito al culto di se, irriverente alla Cantona, il grande pallavolista è stato ed è anche lui, a suo modo, un re del gioco. Con Platini condivide l’estro nel tirare fuori traiettorie imprendibili che dalle finte in palleggio fanno uscire schiacciate angolate indifendibili o battute maligne. L’irriverenza verso l’ortodossia del gioco è stata la forza di Michel e di Earvin, la personalità e quindi il gioco del primo è tutta nel gol segnato e poi annullato contro l’Argentinos Junior, quella dell’altro cavaliere di Francia nei colpi sotto rete dove non sempre i picchiatori più forti, ma anche i finesseur più scaltri, fanno breccia.
Platini e N’Gapeth sono stati due marescialli di Francia che hanno portato, a Torino e Modena, lo snobbismo dell’intelligenza e la classe nelle giocate. Mingherlini e astuti, mentre grossi e generosi sono stati John Charles e Raul Quiroga, gli obici delle squadre campioni per antonomasia. Il grande Raul, 197 cm per 80 kg, veniva dall’argentina voluto dal vate Velasco per essere l’attaccante di punta della Panini che viaggiava di nuovo sulle rotte della vittoria. Apparteneva alla grande generazione della nazionale argentina di pallavolo terza ai mondiali casalinghi del 1982 e bronzo alle olimpiadi del 1988. Con questo martello forte e potente Modena vinse gli scudetti del 1986 e del 1988 le sue schiacciate erano perentorie come i colpi di testa in volo di Sir John Charles. La Juventus comprò il centravanti gallese dal Leeds United, quando ancora non era il maledetto United del romanzo di David Peace, per 65.000 sterline, 619 pounds a gol visto che il gigante buono ne aveva fatti,
all’ombra dello Yorkshire, 150. Hanno dato entrambi, Raul e John, la cosa più importante alle loro squadre: il gol e il punto risolutore. Alti, potenti e forti sono stati la sintesi del gioco di tutti, i bomber che hanno oltrepassato le difese e i muri caricandole come fossero loro stessi l’incarnazione della carica dei seicento di Balaklava.
Dal Sud America molto spesso è arrivata la diversità. Dopo Raul, Hugo Conte è stato il miglior straniero del campionato 90-91 di pallavolo, quello in cui imperava la Generazione dei Fenomeni e dove giocavano e allenavano i migliori allenatori del globo. Con Kantor, funambolico palleggiatore poi anche di Modena e Quiroga formavano un grande trio argentino. L’Argentina ha regalato fenomeni e campioni indimenticabili anche al grande squalo bianco che indossa la maglietta a strisce bianche e nere.
Da San Nicolas de los Arnoyos arrivò El gran Zurdo, Omar Sivori. Il nonno paterno, Giulio Sivori, era originario di Cavi di Lavagna in Liguria e lui veniva dal River Plate l’elite del football argentino. Con i suoi capricci, le sue risse, i suoi duelli western da finto cattivo Sivori è stato, per dirla con Gianni Agnelli, più di un fuoriclasse. Per chi ama il calcio, ricordava l’avvocato, è un vizio. Un vizio che riportò lo scudetto, che segnò 170 gol che vinse il pallone d’oro nel 1960. I personaggi che ha incontrato sono stati il manifesto dei suoi rapporti con la vita, a volte polemici, a volte umani. Per un buono che giocava a fare il cattivo, il massimo. Amico di John Charles e Giampiero Boniperti, nemico di Heriberto Herrera che voleva incastrare il suo talento. Scappò Omar a Napoli, ma rimase nell’immaginario juventino quello che Massimo Raffaeli ha recensito di lui: “ Era il genio assoluto, l’esplosione, l’anarchia come disciplina superiore del calcio”.
Dagli anarchici a pratici, il passo è breve. Anche loro Sud americani, ma dalla parlata portoghese. Josè Altafini e Bernard Rajzman. Due i momenti che li immortalano nel Pantheon di glorie juventine e modenesi: Per José è il gol al minuto ’88 di Juventus-Napoli del 6 aprile 1975, la rete della vittoria per 2-1 sugli ex compagni allenati da O’ Lione Vinicio che fece perdere lo scudetto al Napoli e diventare core n’grato il grande Altafini. Per Rajzman grande attaccante anche lui degli anni ’70 il gesto della battuta cosiddetta alla coreana colpendo il pallone dal basso verso l’alto e facendo una torsione del busto esattamente uguale a quelle che il rapace Josè Altafini faceva nell’area piccola di quel mondo scansonato, vile ma anche coraggioso che l’area di rigore. A Modena il brasiliano, 7 volte campione sudamericano, dai baffi folti da commissario di polizia delle città italiane grige degli anni ’70, quelle dove si avventurava il grande Maurizio Merli, sarà ricordato nei suoi tre anni (’80-’83) anche per questo colpo: lo skyball, il pallone che dal cielo piomba sugli avversari. Un po’ come piombava sui portieri avversari David Trezeguet, il miglior marcatore straniero con 171 gol di nostra signora degli scudetti. Uomo d’area non appariscente, ma letale. Un fedelissimo essendo sceso, assieme a Buffon, Camoranesi, Del Piero e Nedved in serie B nell’estate mondiale del 2006.
Dai pragmatici agli algidi. I freddi nel loro gioco lineare. Tre per parte: Ruslan Olichver uno degli zar di Russia anche quando l’armata rossa aveva perso forza e vittorie sotto rete. Era di origine lettone, un forte centrale moderno campione d’Italia con Modena nel 1995, Zibì Boniek campione polacco capace di accedersi nelle serate di coppa che Porto e Liverpool ancora ricordano, e poi la coppia Ball e Jakovlev campioni glaciali, nel 2002, che seppero battere una Treviso più forte. Un duo che ha ricordato molto quella formata da Hansen e Praest, gli assi che la Juventus chiamò nel 1950 per rivincere il campionato. Una missione che i 175 gol segnati insieme riuscirono a compiere.
Poi sono arrivati quelli dal talento libero, fari accentratori del gioco. Il palleggiatore Ricardo Garcia è stato Zidane, e viceversa. Entrambi pietre filosofali delle loro nazionali, Brasile e Francia, con cui sono divenuti campioni del mondo. Entrambi chiamati a cucire il gioco e a indirizzarlo non per se stessi, ma per gli altri. Entrambi iracondi con gli avversari.
Una classe diversa è stata quella di Helmut Haller il tedesco che Dall’Ara, il presidente del Bologna, amava e che con i suoi passaggi che aprivano a possibilità eccezionali (Bernardini docet) cambiava il gioco con un colpo, come faceva con le sue veloci fuori direzione Bas Van De Goor fuoriclasse olandese del Modena di Daniele Bagnoli.
Tanti sono stati i campionissimi, grandi ed eclettici. Multiformi come Nemanja Petric, campione
serbo con Modena nel 2016 l’anno in cui fu il miglior giocatore del campionato. Il capitano della nazionale che ha giocato in questi anni per la bandiera e la patria, incarnava la classe di Renato Cesarini l’argentino che segnava all’ultimo minuto e a cui Baricco ha dedicato questa frase: “quando dai il tuo nome a un pezzetto di tempo – il quale è solo di dio, dice la Bibbia – qualcosa nella tua vita lo hai fatto”.
Il serbo dal calore umano aveva però in se la forza del centromediano Luis Monti perno della Juventus del quinquennio e tra gli eroi grecizzati dal mito della battaglia di Highbury, mentre i colpi di classe sotto rete emulavano quelli di Mumo Orsi l’ala italo-argentina che guadagnava 100 mila lire l’anno e sfrecciava Torino con una Fiat 509.
Un campione del mondo a differenza di Petric che pur con la sua classe non ha mai vinto l’alloro più grande come Arturo Vidal il guerriero mapuce che sul campo combatteva come gli araucani combattevano, nel Cile raccontato da Isabella Allende, i conquistadores di Pedro De Valdivia. O come Nedved il giocatore ceko più famoso assieme a Josef Masopust e Panenka, l’uomo che sostiuì Zidane e segnò gol storici contro Barcellona e Real Madrid nelle eliminatorie della Champions 2003.
In tutti c’è l’anima grande e sognatrice del campione come oggi lo sono Cristiano Ronaldo e Matt Anderson, gli stranieri che dovranno far vincere la nuova sfida alla Juventus e al Modena Volley: il portoghese dovrà essere il Carlo Magno capace di ricreare a suo di gol quel Sacro romano Impero che si chiama Coppa dei Campioni. L’americano dagli occhi di ghiaccio, il salto perfetto e la schiacciata di classe, giocherà come George Washington per affermare l’indipendenza pallavolistica di Modena dagli eserciti “inglesi” di Perugia e Civitanova. Stranieri, estranei, lontani ma così grandi e vicini nel raccontare agli altri le loro gesta.