di Vincenzo Boscaino
Quanto possa pesare la maglia numero 10 dell’Argentina è una sensazione immaginabile da tutti, ma che
solo in pochissimi hanno provato. Lo sa bene Leo Messi che ormai è abituato a correre con una zavorra
addosso ogni volta che gioca per l’albiceleste. Critiche, lodi, mugugni e dubbi. Ogni singolo tocco con quella
maglia viene enfatizzato e portato all’esasperazione. È una continua oscillazione tra essere il “salvatore della
patria” e la causa di tutti i mali. Una maglia pesantissima, resa ancora più pesante se l’avversario è il
“nemico” di sempre: il Brasile.
La Coppa America dell’Argentina è un’altalena di emozioni. Sconfitta all’esordio contro una Colombia
tutt’altro che irrefrenabile, pareggio con il Paraguay e vittoria con il Qatar per agguantare una qualificazione
più difficile del previsto. Poi la vittoria per due a zero con il Venezuela per mettere in cassaforte la semifinale
e continuare a sognare. In questo ascensore emotivo il popolo argentino si è aggrappato con tutte le sue
forze ad un sorprendente condottiero: Lutaro Martinez.
Si, perché il calcio è strano e meraviglioso. Nella squadra di Messi, Aguero, Dybala e Di Maria può capitare
che l’uomo della svolta è un ragazzino che ha passato in panchina gran parte della stagione. Perché se è
vero che la bravura è nella costanza di rendimento, la capacità di aspettare l’attimo per essere decisivi e per
pochissimi. Lutaro è uno di questi.
L’argentina, però, fa sempre i conti con un problema ricorrente della storia recente: avere un attacco stellare
a fronte di una difesa e centrocampo “rivedibili”. Problema questo che ha portato Messi ad agire in zone
molto più lontano dalla porta per aiutare la fluidità del gioco. Il conseguente risultato è un solo gol all’attivo
(su rigore) e piogge di critiche per Scaloni accusato di non avere trovato il miglior assetto tattico possibile.
E che non si dica che il CT argentino non ci abbia provato. Al fianco della Pulce prima ha schierato il solo
Lutaro e poi nelle ultime due partite ha aggiunto Sergio Aguero. Il problema però rimane. De Paul, Acuna e
Paredes non si amalgamano perfettamente tra di loro. Il fraseggio è lento, prevedibile e sterile. Pezzella ed
Otamendi alle loro spalle non aiutano a far partire la manovra dal basso con la fluidità necessaria. E se con il
Qatar o con le formazioni meno organizzate il solo reparto offensivo può fare la differenza, non si può dire lo
stesso quanto di trovano squadre sistemate bene sul terreno di gioco.
Da qui il dilemma principale di scaloni. Aspettare il Brasile nella propria metà campo e ripartire velocemente
oppure recuperare il pallone più in alto possibile?
Se dovessimo analizzare e studiare ciò che questa Coppa America ci ha mostrato, tutti noi opteremo per la
prima ipotesi. Il trio Messi- Aguero-Martinez ha tutte le carte in regola per attaccare a campo aperto
qualsiasi difesa al mondo e la qualità necessaria per trovare un gol dal nulla. Essere argentini insomma.
Lottare, difendere e giocarsela sul filo di lana per tutto i novanta minuti per poi trovare la genialità dei suoi
fuoriclasse.
Vincere una semifinale in Brasile è una cosa che l’Argentina ha già fatto e sa come fare. Vincere contro i
padroni di casa significherebbe doppia felicità. Perché l’unico sentimento al mondo più forte della paura dei
Brasiliani di vedere gli Argentini vincere a casa propria, e la speranza degli Argentini di vincere in Brasile.
Chissà se sentiremo ancora cantare la famosa canzone: “Brasil, decime qué se siente,tener en casa a tu
papá”. Chissà. Lo scopriremo dopo questi Novanta minuti, novanta minuti in cui si farà la storia del calcio
moderno in Sudamerica.