Di Matteo Quaglini
L’allenatore è un uomo solo, per definizione. Un uomo però che nella sua solitudine deve condividere le idee con gli altri, i giocatori. E soprattutto deve convincerli che la strada che ha pensato per loro sarà quella che li porterà alla vittoria.
Lo stesso ruolo dei grandi generali della storia. Quando Napoleone prese sotto il suo comando la disastrata armata d’Italia nel 1796, dovette convincere i derelitti e sfiduciati soldati di un fronte secondario e diversivo che sarebbero arrivati alla vittoria che li avrebbe resi grandi.
L’ iniziale incredulità e lo scetticismo delle truppe vennero meno quando arrivarono i successi di Lodi e Rivoli e via da li in una lunga corsa fino a Vienna, che solo Barras e la politica seppero arrestare.
Lo stesso valse per Cesare nella campagna contro i galli. Il futuro Pontefice massimo dell’impero romano convinse le sue legioni a circondare, edificando tre strati di muraglia, il villaggio di Vercingetorige e dei suoi galli. La strada per la vittoria era tracciata in un’idea, come l’imperatore dei francesi, Cesare aveva convinto i suoi che quella scelta sarebbe stata il cammino giusto per vincere.
Questo è un allenatore. E’ l’uomo solo al comando che unisce l’intuito alle conoscenze e porta tutti al di là del Rubicone o a toccare le glorie di Austerlitz. Cesare e Napoleone guidavano due forti eserciti che con loro divennero tra i più grandi della storia militare, chi sono stati, dunque, i generali pardon gli allenatori dei grandi eserciti di Modena e Juventus? E quale strada hanno indicato per i loro pretoriani?
Gli allenatori di queste due squadre mitiche sono stati 58 di cui 20 stranieri e 14 ad interim. Un grande Pantheon fatto di generali, ex giocatori pronti a lottare per la bandiera, capi intransigenti, eretici alla Luigi Maifredi, enfant prodige. I primi furono l’ungherese Jeno Karoly voluto, per dare professionismo al ruolo, da Edoardo Agnelli e Franco Anderlini il mitico Prof della pallavolo italiana che guidò la Panini dalla fondazione al primo scudetto nel quadriennio storico ’66-’70.
I primi padri della patria furono importantissimi per l’opera di costruzione di una Juventus che aveva vinto solo lo scudetto del 1905 e si trovava in forte soggezione nei confronti dell’antico mito Genoa Football e Cricket Club degli esarchi Garbutt e Renzo De Vecchi. E lo furono anche per una Panini che raccoglieva la storia di una città undici volte consecutive campione d’Italia e che senza esperienza sfidava la fortissima Ruini Firenze.
L’ungherese Jeno Karoly, un uomo dal baffo anni trenta e dalla pelata dannunziana, costruì e Josef Viola raccolse. Anche lui ungherese vinse lo scudetto del 1926, il primo della monarchia degli Agnelli.
Il Prof. Franco Anderlini era un allenatore diverso. Se gli ungheresi della Juventus portarono il metodo del calcio danubiano per dare professionalità ad un ruolo, quello dell’allenatore, che non esisteva e in cui il capitano della squadra si cimentava, il mito della Modena pallavolistica portò un’anima nuova in città chiamata Panini.
Diplomato all’Isef di Roma, grande preparatore fisico, psicologo burbero, gestore di personalità altezzose, generale non ancorato agli schemi, è stato a Modena la pallavolo. Un misto tra Helenio Herrera e Nereo Rocco più che un Liedholm. Vinse tre scudetti nello stesso periodo in cui, i primi anni ’70, la Juventus tornò padrona del campionato, ma era diverso dagli allenatori della squadra del presidente Boniperti.
Franco Anderlini non aveva l’idea di una costruzione innovativa in una casa conservatrice come Armando Picchi, grande e sfortunato giovane allenatore capace di avviare la “meglio gioventù juventina” in ossequio al nome della genesi. E non era nemmeno un calvinista inflessibile e dogmatico di “movimiento” come Heriberto Herrera, paraguaiano in grado di battere la Grande Inter e fustigare allo stesso modo il divismo romanzesco di Omar Sivori.
Franco Anderlini è stato più un Trapattoni e un Cestemir Vycpalek. Del Trap ha avuto il maresciallato raggiunto grazie alle tante campagne vinte sui campi mentre del cecoslovacco che
trovò in Palermo la sua roccaforte di vita, il senso pratico della gestione degli uomini. Le imprese dei due, il modenese e il praghese si toccano in quegli anni ’70 iracondi con due episodi da epica sportiva.
La nazionale italiana di pallavolo allenata dal Prof. batté nel 1976 la grande Bulgaria del fuoriclasse Zlatanov e per la prima volta approdammo alle olimpiadi. Una vittoria all’ultimo tuffo proprio come quella rocambolesca della Juventus a Roma nel 1973. Un tiro sotto l’incrocio di Antonello Cuccureddu, in un gotico Roma-Juventus, come un muro sull’asso bulgaro di Gianni Lanfranco a sancire trionfi di chi non molla mai.
Franco e Cestemir due generali alla Georgij Kostantinovic Zukov, tutta grinta e fuoco sacro per la bandiera, solo per la bandiera. Entrambi nell’olimpio dei generali da panchina come Carlo Carcano il grande allenatore del Juventus del quinquennio d’oro. Di Anderlini, Carcano aveva la capacità psicologica di gestire grandi campioni ricchi di superbia nel carattere e nei comportamenti. Di Carcano, il Prof. aveva l’idea costante di vincere seguendo strutture di gioco collaudate, concetti che in un esaltava gli individui e nell’altro il “Metodo”. Tutti e due venivano da una scuola, quella modenese per uno, quella alessandrina per l’altro. Erano però anche diversi questi due grandi allenatori. Il Prof liberava la fantasia dei suoi, Carcano invece già nel 1930 studiava gli avversari e sorvegliava i giocatori. La differenza più grande però sta nel ricordo: Franco Anderlini è un nome tutelare della pallavolo nostrana, Carlo Carcano è stato dimenticato dalla stessa Juventus che lo esonerò a dicembre del ’34 per fatti che riguardavano la sua vita privata che gli anni d’allora volevano insabbiare.
Tra i generali da panchina ci sono anche Velasco e Daniele Bagnoli, gli uomini in grado di riportare Modena sulla strada del Graal chiamato vittoria dopo gli anni dell’oscurantismo medievale e della Santal Parma regina o del sacco del 1990 con Milano e Treviso moderni lanzichenecchi devastatori di “Modena”, città guida dell’impero pallavolistico.
Moderni re l’argentino e il mantovano identici nella loro prima traiettoria modenese a Lippi e Conte, gli allenatori che hanno ridato alla Juventus la felicità dell’unico pasto che sazia il grande squalo bianco, la vittoria. Lippi era come Velasco un allenatore giovane, messosi in evidenza tra Cesena, Bergamo e Napoli e come l’argentino che veniva dall’A2 di Jesi trovò subito la costruzione: tre punte con Del Piero al posto del divino Baggio per vincere lo scudetto nove anni dopo l’ultimo.
Conte e Bagnoli venivano dalle serie inferiori, ma avevano dentro il fanatico fuoco del monaco che va nelle campagne pagane a predicare la nuova religione. Diversi, in tutto. Uno flemmatico e distaccato all’apparenza, l’altro ossessivo e martellante fino all’estremo. Ma ambedue vincenti con le loro idee, non apprezzate all’inizio. Lo scudetto di Modena del 1995 era la rivalsa di una città ferita esattamente come quello immacolato da sconfitte fu la rivincita della Juventus 2012.
Una carrellata di condottieri non sempre però elevati al rango di Imperator. E’ la storia di Radostin Stoytchev, il grande allenatore bulgaro 4 volte campione d’Italia e del mondo e 3 volte campione d’Europa con Trento che a Modena fu battuto dalla polemica con i giocatori. Oppure è il caso di Carlo Ancelotti che pur non ancora Magno venne anche lui battuto dalla polemica, con i tifosi questa volta.
Tre ancora gli uomini soli al comando. Gli stranieri, gli ex giocatori e i comandanti ad interim. Questi ultimi sono stati 10 per la Juventus e 4 per Modena, governatori momentanei, reggitori di crisi, novelli Caronte, comandanti di prima nomina a Trafalgar al posto di Hontario Nelson. I più importanti sono stati Josef Viola primo allenatore campione sotto gli Agnelli e Franco Bertoli mano di pietra: capitano, campione, nazionale, dirigente e allenatore campione d’Italia e d’Europa.
La Panini Modena ha affidato ad alcuni ex giocatori la sua panchina così come la Juventus, per la mozione dei sentimenti, il richiamo di vecchi guerrieri che erano stati grandi sul campo, l’idea di tornare a vincere con chi l’aveva già fatto.
In entrambi i casi, però, non si andò oltre le vittorie di qualche coppa. Modena si affidò a un Nannini troppo polemico e poco ascoltato durante i time-out, a un Pupo Dall’Olio che si portò la terza coppa campioni consecutiva nel ’98 ma non dette le suggestioni di Velasco e Bagnoli. E ancora l’arrivo di Giani subito dopo il termine della sua incredibile carriera di campionissimo nel 2007, fu troppo legata al solo talento come se bastasse la propria storia per essere anche un grande
allenatore.
La Juventus ne ha avuti di più di ex poi allenatori. Da Dino Zoff, a Ciro Ferrara, da Carlo Parola a Didier Deschamps. Alcuni hanno vinto come il mitico Dino e Carlo Parola, l’uomo della rovesciata sulle figurine Panini guarda un po’. Altri non hanno lasciato lo stesso segno che avevano impresso, come le stelle e i registi di Hollywood, da giocatori. E’ il caso del decennio 1937-49 dove si alternarono i vecchi eroi del quinquennio d’oro, i terzini campioni del mondo Virginio Rosetta e Umberto Caligaris, l’ala Federico Munerati, la grande mezzala Giovanni Ferrari, Luisito Monti e gli attaccanti Felice Borel II e Renato Cesarini, quello dei gol al novantesimo. Una squadra di campioni che non ebbero però da allenatori i successi del tempo che fu.
In due squadre italianiste come la Panini Modena e la Juventus non sono mancati i conducator stranieri. Hanno emozionato meno di quello che forse avrebbero potuto. Alcuni sono stati troppo legati ai loro mentori come lo scozzese George Aitken alla Juventus dal 1928 al ’30 seguace di Herbert Chapman senza avere però un Huddersfield o un Arsenal. Altri hanno vinto scudetti e coppe dei campioni come Jankovic e Skorek come Heriberto Herrera e Brocic, ma sono rimasti distanti senza portare appieno compimento la loro diversità.
Altri sono stati solo caricaturali come William Chalmers che il giovane avvocato scelse nel 1947 e che pur somigliando a Bernard Law Montgomery non trovò, all’ombra della mole, la sua El Alamein personale. Così come non trovarono la loro Rio De Janeiro, Paulo Amaral e Rezende Bernardo detto Bernandinho, il più grande allenatore nella storia della pallavolo brasiliana dopo Bebeto. Amaral fallì perché in una squadra di classe incentrò tutto sulla preparazione fisica, Bernardinho non trovò il tempo e i giocatori adatti al suo credo che farà poi del Brasile il faro della pallavolo degli ultimi vent’anni.
Nel lungo viaggio ultra centenario della Juventus e in quello cinquantennale di Modena moltissimi sono stati gli allenatori; duri alla Fabio Capello, studiosi alla Silvano Prandi, polemici con i propri giocatori alla Luis Carniglia, algidi e imbattuti come Allegri alla Wellington. Tanti e diversi come sono diversi quelli di oggi Giani e Sarri, anche loro uomini soli al comando.