Di Matteo Quaglini
Il torneo pre olimpico di pallavolo, conclusosi tredici giorni fa, ha dato il suo verdetto tecnico: L’Italia della palla in aria andrà alle Olimpiadi di Tokio. Un risultato importante che conferma la forza del nostro movimento, anche se la centralità dei tempi di Velasco non c’è più e la geografia della nostra forza è ridistribuita oggi tra russi, polacchi, francesi, americani, brasiliani. Siamo forti insomma, non più i migliori però.
In ogni caso saremo tra i protagonisti del torneo più importante, quello olimpico. E’ la nostra dodicesima partecipazione, dal 1976 dalle Olimpiadi di Montreal dunque non abbiamo più saltato una partecipazione. Significa che possiamo ancora e sempre dire la nostra, la base di partenza è buona come ha testimoniato la vittoria sulla temutissima e forte Serbia.
Abbiamo controllato la partita sin dall’inizio senza paura e con la giusta dose di aggressività, mettendo in campo una delle regole non scritte ma che aleggiano sul campo diviso dalla rete, “mente lucida e cuore caldo”. Una squadra tatticamente consapevole, forte a muro fondamentale che aveva vacillato con l’Australia, ordinata in difesa, rapida e incisiva in attacco con un Juantorena campionissimo per colpi e qualità.
La Serbia non ha potuto e saputo fare opposizione. La formazione iniziale ha lasciato più di una perplessità, Petric fuori dai titolari è stato un errore di Grbic e Atanasijevic è finito presto in panchina chiuso dal muro azzurro e impossibilitato a scatenare il suo braccio destro tra battuta e attacco, 35 punti partita in meno per i serbi. Un grande vantaggio per noi. La vittoria dell’Italia è anche li, in questa sua forza tattica di annullare l’avversario.
E’ sempre stata questa la nostra arma migliore, il giocare tatticamente e tecnicamente sull’avversario. Il contropiede nel calcio, la correlazione sincrona muro-difesa e poi il contrattacco nella pallavolo. La vittoria, da sempre portatrice di maggiori sicurezze, rilancia la nostra mentalità vincente e permette di fare un tuffo nella storia ricordando tutto anche le sconfitte, che quando si è inebriati dall’alloro del trionfo risultano più dolci e meno amare. Si trasformano cioè da ostacoli in piastrelle che lastricano il pavimento della propria strada sportiva fino ad arrivare al successo.
Così, con questa filosofia che moltiplica i suoi effetti e redime dalle sconfitte, possiamo ricordare le partite che nel calcio, al là della sconfitta o della vittoria, hanno fatto la storia degli incontri tra l’Italia dei moschettieri e il grande football dell’Europa dell’Est. Nella pallavolo abbiamo battuto la Serbia dei tanti talenti che giocano nel nostro campionato, e nel calcio quali partite abbiamo giocato?
Il primo scontro in assoluto fu con l’Ungheria il 26 maggio del 1910 a Budapest, una delle grandi capitali europee. Il calcio magiaro era già un piccolo grande riferimento, noi eravamo alla seconda partita della nostra storia. Perdemmo 6-1, ancora troppo netta era la differenza. Gli ungheresi schierarono Karoly e Weisz che a carriera pedatoria finita, arriveranno in Italia per allenare impiantando il seme della vittoria nella Juventus e nell’Inter. E’ una nazionale acerba e non potrebbe essere altrimenti, storicamente però importante per via della sua costruzione da cui si può ricavare un ritratto delle prime fondamenta del calcio italiano. Giochiamo, in quel maggio del’10, con la Piramide di Cambrige il primo modulo che da ordine e linee al calcio. Si gioca col 2-3-5 questo significa che anche noi da subito scegliamo il modello inglese esaltato dai Blackburn Rovers in Coppa d’Inghilterra e lo lavoriamo. Con Vittorio Pozzo e il metodo gli daremo, vent’anni dopo una nostra specifica identità.
Il secondo aspetto che si ricava da questo esordio in salita è che quella prima nazionale fu composta dall’assemblaggio di sei squadre per un totale ovviamente di 11 giocatori. Due erano del Milan, del Torino, dell’Ausonia, uno per Inter e Doria, tre dell’Unione Sportiva Milanese. E’ un calcio multiforme non c’è ancora un blocco squadra, manca la rappresentanza della Juventus nata nel 1897 e campione d’Italia per la prima volta nel 1905. Le grandi squadre vanno nascendo, la provincia è il cuore della nazione che gioca a pallone. Infatti tra le squadre che giocano il campionato federale sono nate il Genoa Cricket and Football Club (1893), il Football Club Torinese (1894), la Società Ginnastica Torino (1897), la Società Educazione fisica Mediolanum (1898) il Milan e la Sampierdarenese (1899), il Doria (1900) mentre le altre che forniscono i primi giocatori alla nazionale sono nate dopo i primi del novecento: Unione Sportiva Milanese (1902), Torino (1906), Ausonia (1905), Inter (1908). C’è già molto calcio moderno, ma il grande blocco Juventus tra i pilastri della nazionale (mondiali, ’78, ’82 e ‘2006) deve ancora consolidarsi.
Il terzo elemento storico è la formazione, giocarono: De Simoni, Varisco, Calì, Trerè, Fossati, Capello, Debernardi, Rizzi (che fece gol), Cevenini I, Lana, Boiocchi. Inizio in salita, ma si sa che i principi sono difficili e richiedono tempo. Così tredici anni dopo perdemmo ancora, ma la costruzione continuava.
A Praga ci batte la Cecoslovacchia per 5-1 è il 27 maggio del 1923. Tre i tratti importanti di quella partita. C’è già un folto pubblico sugli spalti, segno che il calcio piace e quello internazionale affascina. Due, c’è già nello schieramento Caligaris diventerà campione del mondo e uno dei grandi di sempre. Tre, il capitano era Renzo De Vecchi un milanese purosangue che diventerà il mito vivente del grande Genoa degli scudetti pre girone unico. Il “Figlio di Dio” da 269 partite nelle fila dei padri fondatori della Repubblica Marinara genovese.
Il confronto con il calcio dell’Europa dell’Est è ancora lontano dall’esserci, ma stanno nascendo i primi miti, i capitani oltre la fascia come lo sono oggi nella pallavolo Zaytsev e Juantorena che hanno nell’anima ancora qualcosa che racconta il fascino della storia, in un contesto fluido e delle volte privo di pathos perché privo di fuoriclasse, l’anticamera del mito appunto.
I miglioramenti stanno per arrivare. Come nella pallavolo la metà degli anni ’70 hanno rappresentato l’inizio del rovesciamento delle forze contro i grandi squadroni dell’Est, così la fine degli anni venti lo sono stati per il calcio. Gli anni della supremazia del nostro calcio sull’Europa e con essa anche sulle grandissime squadre dell’Est che allora rappresentavano la prima e importante scuola calcistica.
Il primo segno fu il pareggio conseguito a Budapest l’8 novembre 1925, la pioggia e l’acquitrino che riempiono il campo ci aiutano come avevano aiutato Wellington mentre era appollaiato sull’altopiano di Waterloo con i francesi che facevano fatica a caricare con la cavalleria e a risalire la china con la fanteria, scatenando così le ire di Napoleone.
La nostra Royal Guards di allora era composta, tra gli altri, dal portiere De Prà, dal difensore Allemandi, da Fulvio Bernardini già demiurgo di calcio da giocatore, da Carlo Bigatto che narrava in nazionale gesta juventine e da Baloncieri il giocatore confine tra gli esordi azzurri e la loro consacrazione mondiale nel segno di Meazza e del Metodo. Già, ora tocca a lui entrare in scena, è Peppin l’uomo che incarna il talento.
Da qui in poi fino al primo dopo guerra rovesciamo il paradigma del dominio del calcio danubiano e Est europeo, grazie a questo ragazzo milanese di Porta Vittoria che insegue il gol con la stessa facilità con cui insegue la vita. Ci sostiene un precedente il trionfo per 4-3, recuperando da 0-2, contro l’Ungheria a Roma nell’esordio allo Stadio Nazionale nel marzo del ’28. Risolve Virgilio Felice Levratto con lo stesso sinistro violento che valse al Vado la prima e unica coppa Italia della sua storia, alla prima edizione del torneo nel 1922 quando in Italia i tumulti politici erano in marcia e nascevano dall’anno precedente gli scontri ideologici che avrebbero caratterizzato tutto il novecento.
Da Levratto a Meazza il passo è breve. El Peppin è quello che sessant’anni dopo saranno i Lucchetta, i Cantagalli, i Tofoli, i Gardini, gli Giani, un fenomeno. Un vincente che lascia il segno, l’asso a cui Ungheria e Cecoslovacchia, il meglio del calcio internazionale anni ’30, devono sottostare. Tre le partite manifesto: Ungheria-Italia maggio 1930, la finale mondiale con la Cecoslovacchia del ’34 e quella parigina ancora contro i magiari del grande campione Sarosi che allenerà in Italia.
Di queste partite si conosce tutta la mitologia, inutile ripeterla è storia incisa per sempre nei libri del calcio. Interessanti sono i dettagli. I tre gol di Meazza a Budapest sono come le toccate dello spadaccino Cyrano De Bergerac, la fine della tenzone. E’ una prodezza memorabile che arriva a noi irradiata dalla radio, il mezzo di comunicazione che collega il mondo degli anni ’30 a raccontarla con la sua inconfondibile voce è Nicolò Carosio. E’ il segno del campionissimo, quello del Peppin, che prelude al suo diventare due volte campione del mondo. La seconda volta è a Parigi quando batte, guidando una squadra completamente diversa da quella del ’34, l’Ungheria di Sarosi. Gioca mezzala lasciando il ruolo di centravanti a Silvio Piola, è il segno della sua diversità e quella della nostra che battiamo i migliori, Brasile compreso. La mentalità vincente si fa vincendo e noi avevamo già la base di un altro trionfo sul meglio del calcio dell’Est: la vittoria del 1934 ai mondiali di Roma sulla Cecoslovacchia di Puc e Planika.
Quattro le cose da estrapolare nel racconto di quel mitico pomeriggio romano: il blocco Juventus è arrivato, giocano Combi, Monti, Bertolini, Ferrari e Mumo Orsi è il segno che il campionato è diventato un movimento che fa da fondamento alla nazionale. Il fatto che ci siano altri 6 giocatori divisi tra 3 squadre (Bologna, Inter e Roma) attesta che iniziavano anche a esserci dei rivali, quindi a fare del campionato una base competitiva per dare forza alle partite internazionali.
Quel pomeriggio contro i maestri del possesso palla Schiavio, il centravanti del Bologna che tremare il mondo fa, segna il gol partita e come il portiere Combi chiude la carriera in nazionale, è il passaggio alla nuova generazione che verrà. Come accadrà poi nella pallavolo dopo il 1996 dove una nuova stilla di pallavolisti continuerà il cammino verso l’olimpo mondiale, come faranno nel pallone italiano le nazionali di Messico ’70, Argentina e Spagna ’82 e Germania 2006.
Il tutto nel segno del talento. La spada di Re Artù è stata estratta e traccia la via dei successivi confronti con le squadre dell’Est dal dopo guerra ai giorni nostri. Nel segno del talento si giocheranno le sfide all’Ungheria di Puskas e degli altri dioscuri magiari, si affronterà a più riprese la Jugoslavia del calcio a un tocco che sarà sempre una frontiera per la nazionale italiana, nel Dio pallone come nella pallavolo. Gli slavi e l’Est Europa affrontandoci dagli anni ’60 in poi ci porteranno, loro viaggiatori prima raminghi poi sedentari, a punti di svolta tecnici che diverranno fondamenti di future vittorie mondiali di azzurra.
Le vedremo nella seconda parte di un racconto che nel narrare la storia di scontri cavallereschi tra noi e gli europei che stanno a Oriente, ha segnato una piccola fetta delle vicende delle nazionali italiane di calcio e pallavolo. Nel grande romanzo del football iridato e del volley mondiale se siamo sette volte campioni del mondo lo dobbiamo anche a quello che ci hanno insegnato slavi, cechi, russi, rumeni, bulgari e altri grandi orientali, affrontandoli.