Di Matteo Quaglini
Vengono da lontano a portare la loro mentalità. Di professione fanno gli allenatori e a un certo punto della vita si sono trovati lontano dai paesi natale, dalle città della giovinezza, seduti a pensare alle strategie di due grandi squadre sportive: la Juventus e la Panini Modena.
Venti allenatori che hanno portato all’interno di due sodalizi italianissimi, la loro cultura, la loro filosofia tratto imprescindibile – per dirla con Dan Peterson, altro mito che viene da lontano – per essere considerati degli allenatori.
Ciascuno, a suo modo è stato importatore di cultura calcistica o pallavolistica. Come Giorgio Sarosi fuoriclasse ungherese e allenatore campione d’Italia nella Juventus 1952. Il grande magiaro portò nella squadra l’idea del gioco ragionato, del dialogo tecnico. Qualcosa che la Juventus già conosceva ma che aveva perduto negli anni quaranta, quelli delle vittorie di Bologna e Ambrosiana-Inter e poi nell’immediato dopo guerra quando apparve sui campi il tremendismo del Grande Torino di Ferruccio Novo e Valentino Mazzola.
Sarosi dal nome da re e dal pensiero calcistico estetico volle una Juventus in linea con la sua idea di classe, ma non fece breccia nella storia di Madama. Vuoi perché il concetto dell’importanza dell’allenatore era ancora in la da venire, vuoi perché il fuoriclasse è a volte etereo come allenatore, vuoi perché l’Inter di Foni con un gioco sparagnino si prese la rivincita.
Senza dubbio la ricostruzione di una Juventus di nuovo vincente negli anni ’50 si deve alla mentalità magiara del gioco palla a terra e alle innovazioni tattiche di Jesse Carver l’allenatore nato a Liverpool che riportò lo scudetto nella Torino bianconera nel 1950, quindici anni dopo l’ultimo trionfo. Lo stempiato zio Jesse sembrava un personaggio uscito dalla penna di Agatha Christie: il classico maggiordomo che tutti additano, appena viene fuori il delitto, come l’assassino. Carver però non era una figura algida e ingessata dal “bon ton”, era un innovatore.
Vinse il campionato poi se ne andò nel ’51 litigando, come da carattere, con la dirigenza e lasciando spazio al trionfo del Milan targato Gre-No-Li. Girò l’Italia tra Roma, Lazio, Torino, Inter, Genoa un peregrinare durato fino alla prima alba degli anni ’60, i favolosi anni del boom economico e culturale italiano. Fu importante il suo lavoro perché riportò la Juventus sul pennone più alto dando al Boniperti giocatore la prima vittoria e indirizzandolo su un cammino che non avrebbe abbandonato fino all’ultimo anno di attività, il 1994.
Un inglese e un ungherese, nella pallavolo la loro figura è racchiusa in una sola persona: Edward Skorek. Con Sarosi, Skorek condivide il ruolo di fuoriclasse di un’altra famosa nazionale dell’Est Europa, la Polonia. Insieme a Skiba e Wojtowicz, altri dioscuri della palla in aria, vinse le Olimpiadi di Montreal del 1976 battendo l’imbattibile Urss. Con Carver condivide la fermezza nelle proprie idee e la capacità di dargli una forma, come uno scultore da forma alla pietra grezza.
Quando arriva a Modena, la Panini certo pietra da modellare non è. Già ha vinto col mitico professor Franco Anderlini in panchina. Ma qualcosa si è inceppato nella Juventus della pallavolo. Il polacco nel ruolo di giocatore-allenatore ricostruisce la mentalità ferita e il grande Orso Bruno può tornare a cacciare lo scudetto: la squadra sotto la sua direzione tecnica è campione nel 1975 e nel 1978, gli stessi anni in cui la Juventus vince il campionato italiano di calcio. La storia fa incontrare sempre i fuoriclasse, non c’è dubbio.
Di un altro allenatore della Juventus Edward Skorek ha ricalcato le orme: è Cestemir Vycpalek lo zio di Zdenek Zeman. Assume l’incarico di allenatore in un momento difficile per la società. Giampiero Boniperti ha scelto il grande Armando Picchi, libero dell’Inter euromondiale di Helenio Herrera, come giovane allenatore che deve ridare un gioco e un’identità perduta alla squadra da anni relegata a spettatrice della grandezza di Milano. Il boom economico della città si rispecchia nel calcio e solo Mantova con le sue contro alchimie alla Malatesta ha per un momento riportato gloria tra i campioni per antonomasia.
L’allenatore cecoslovacco, che aveva già giocato con la Juventus nel 1947 per 27 partite e 5 gol,
vinse due scudetti in volata con un passo sicuro nelle grandi tappe di pianura e dopo aver superato gli ostacoli di montagna con grandi vittorie, il 4-1 di San Siro contro il Milan di Rivera e Rocco, la rimonta di Roma del maggio ’73. In Europa arrivò, per la prima volta con la Juventus alla finale di Coppa Campioni contro i cavalieri della corte del re Artù dell’epoca, sua maestà Johan Cruijff.
Tutti momenti in cui Vycpalek si comportò con grande psicologia, rincuorando sempre dopo qualche sconfitta i suoi giovani campioni. Non era la Juventus del gioco anche se si schierava con quello che oggi chiameremmo un 4-2-3-1 molto offensivo, ma era una squadra sempre in grado di sovvertire le difficoltà anche grazie alle infusioni di fiducia di Cestemir Vycpalek, vero “Zio” dei suoi giocatori.
Fine psicologo era anche il croato, allora Jugoslavo per via delle costruzioni politiche del ‘900, Vladimir Jankovic l’allenatore della Panini ( Philips in quel 1989-90) Modena per la prima volta campione d’Europa. Un grande esperto di pallavolo e dei suoi meccanismi, professore universitario Isef, allenatore a Zagabria e della nazionale jugoslava, signore solo apparentemente distaccato in panchina con una gamba accavallata sull’altra a seguire le veloci di Lucchetta, le alzate di Vullo, gli attacchi di Lorenzo Bernardi e Luca Cantagalli. Fuori apparentemente algido dentro vulcanico come tutti gli slavi.
Sarà ricordato nel tempio della pallavolo come l’allenatore “troppo signore” e lo stesso Giuseppe Panini, che molto lo rispettava, sosterrà negli anni a venire, quelli dell’oscurantismo da medioevo pallavolistico di Modena, come avrebbe dovuto sostituirlo subito dopo la vittoria nella grande coppa mai vinta prima nemmeno dal grande Julio Velasco. Come era possibile? L’allenatore che ha portato la prima vittoria nel massimo torneo europeo esonerato? E a play-off ancora da cominciare per giunta.
Il Cavalier Giuseppe da buon uomo di mondo aveva fiutato il pericolo, il lupo che sta per arrivare. Le 8 vittorie su 8 partite europee che misero in fila, fino al trionfo finale: il Martinus, il Lipsia, il Tarmo, il Cska Sofia e due volte i francesi del Frejus erano state grandissime e figlie della sua capacità di infondere calma. Ma al di là della rete c’era l’ossessione per la vittoria di Parma e del suo condottiero Montali, che allora si comportava in panchina e in allenamento come fa oggi Antonio Conte. La grande Panini non esonerò il saggio Vladimir Jankovic e qualcosa mancò nella mentalità della squadra in termini d’aggressività nelle tre finali che perse contro la Maxicono Parma. Come se la Juventus perdesse tre finali nello stesso anno con l’Inter: Parma vinse campionato, coppa Italia e super coppa europea per un grande slam che avrebbe fatto impallidire Mc Enroe e altri grandissimi della racchetta.
La stessa cosa che accadde alla Juventus nell’anno 1958-59 quando ad allenarla c’era Ljubisa Brocic allenatore jugoslavo nato nella Belgrado del 1911. Nel campionato precedente assieme all’aiuto di Tebaldo Depetrini che gli faceva da traduttore vinse il campionato con tre punti di vantaggio sulla grande Fiorentina di quegli anni. Fu lo scudetto della stella, il segno del maresciallato sportivo di una società che aveva con la sua idea industriale di football chiuso l’era del grande calcio di Pro Vercelli e Casale e aperto alla modernità di un gioco nazionale. L’anno dopo la Juventus partecipa per la prima volta alla Coppa dei Campioni, che il grande Real di Don Alfredo Di Stefano sta dominando.
Due sconfitte segnano il destino di Brocic e ne determinano l’esonero. La prima è con il Wiener che vince nell’ex città dell’impero per 7-0 nonostante Sivori e Charles, l’altra è con il Milan che intanto si è riorganizzato e passa per 5a4 determinando la fine dell’epoca slava nella Juventus regia. Per Vladimir Jankovic e Ljubisa Brocic lo stesso destino: la vittoria non è stata viatico di una strada lastricata da trionfi, ma la fine breve di un’era.
Nel segno dei maestri di vita dell’Europa dell’Est sono cresciute comunque Juventus e Modena, con vittorie e anche polemici momenti. Le vittorie vennero da Jeno Karoly e Joseph Viola due ungheresi che portarono la Juventus allo scudetto del 1926, il primo della monarchia tutt’ora imperante: quella degli Agnelli. Viola prese in mano la squadra nel luglio del ’26 dopo la morte improvvisa del suo predecessore e mentore, e fu un successo. Insieme diressero 137 partite, 78 vittorie, 29 pareggi, 30 sconfitte, segnarono 304 gol e ne subirono 130, numeri che valsero il secondo scudetto di Madama.
Le polemiche e i brutti momenti, invece, arrivano da Modena nel caso Radostin Stoychev.
L’allenatore bulgaro, uno dei più vincenti nella storia della pallavolo con 4 scudetti, 3 coppe dei campioni, 4 mondiali per club, ha vissuto la sua stagione più brutta all’ombra del Tempio di Modena: il sacerdote che viene ripudiato dai fedeli. Fortissime polemiche con Bruninho e Earvin N’Gapeth, i fuoriclasse di quella squadra, l’accusa da parte della società di inadempienza nel lavoro tecnico e atletico, la querela per diffamazione da parte dell’allenatore, il processo e lo sviluppo legale ancora in corso, in una parola la violazione da parte di tutti della sacralità del tempio pallavolistico per eccellenza. Un finale polemico come quello di Dieder Deschamps, allenatore oggi campione del mondo e allora nel 2007 dimessosi per divergenze con la società dopo aver riportato la Juventus in Serie A. Le sue 43 partite alla guida rimarranno comunque nell’albo bianconero come la difesa di un templare del “suo” Graal.
Nella Juventus gli Stoychev, cioè gli allenatori avversati da tutto l’ambiente, furono gli scozzesi George Aitken ( 1928-30 ) e William Chalmers voluto da Giovanni Agnelli per sostituire nel 1948-49 Renato Cesarini. Non ebbero successo e non furono stimati. Il primo allievo delle teorie di Herbet Chapman volle il sistema e curò la preparazione fisica, si fece nemico i giocatori e fu mandato via per Carlo Carcano. L’altro Sir William sembrava in tutto e per tutto il sosia di Bernard Law Montgomery il capo carismatico della battaglia di El Alamein. Ma i risultati furono diversi: 4° posto a – 16 dal Torino, una considerazione da parte di tutti tesa tra l’incompetente e l’eccentrico, fu chiaro che non ci sarebbe stata nomenclatura per lui nel tempio juventino.
E infine i sudamericani, i caudillos. I brasiliani Paulo Amaral, preparatore del Brasile di Vicente Feola bicampione del mondo (’58-’62) e Bernardo De Rezende detto “Bernardinho” non ebbero fortuna. Entrambi di Rio De Janeiro durarono meno di una stagione. Amaral venne sostituito nel 1964 da Eraldo Monzeglio e tornò in Brasile, lo fece anche Bernardinho nel 1993 diventando però uno degli allenatori più bravi e vincenti: 28 titoli con le nazionali maschili e femminili, allenando tra i migliori giocatori della pallavolo planetaria. Semplicemente a Modena non fu il suo tempo.
Dal Brasile all’Argentina passando per il Paraguay, il passo è breve. Luis Carniglia, allenatore argentino focoso e poco incline alla diplomazia, due volte campione d’Europa col Real Madrid, allenò la Juventus per 6 partite (1969-70), 1 vittoria all’esordio sul Palermo, due pareggi, 3 sconfitte l’ultima delle quali il 19 ottobre 1969 a Vicenza segnò la fine di un magistero che i giocatori non amavamo. Troppi giudizi taglienti spiattellati nelle dichiarazioni ufficiali. Da quell’esonero iniziò il cammino della Juventus Bonipertiana dominatrice dei due decenni successivi.
Anche Luis Monti da Buenos Aires non ebbe molta gloria da allenatore della Juventus, lui che ne era stato il guerriero per elezione. Una Coppa Italia nel 1942, come unico trofeo però di un quindicennio avaro d’emozioni. L’impatto di Julio Velasco fu diverso. L’argentino che veniva da La Plata e aveva studiato filosofia cambiò la mentalità di Modena, portando la diversità dei suoi ragionamenti. I quattro scudetti consecutivi e la coppa coppe del 1986 sono la base del trionfo più grande, il cambio di mentalità: l’idea della competenza come eccellenza, l’abbattimento della cultura degli alibi, gli allenamenti doppi, la centralità dell’attacco, l’essere duri sul serio cioè il saper affrontare e superare le difficoltà, furono i postulati tecnici che dettero a Velasco un posto nella storia. Un processo mentale e di allenamento che tentò di realizzare anche Heriberto Herrera, vent’anni prima nella famosa Juventus “operaia” di Cinesinho e Del Sol. Cinque anni di magistero: uno scudetto, una coppa Italia, una semifinale di Coppa Campioni contro la pantera del Mozambico Eusebio e tanto, tanto “movimiento”. Tutto finì, per accacchino come lo ribattezzò Gianni Brera, quando litigò con Sivori: la Juventus non gli perdonò l’affronto al re. Anche Velasco ebbe il suo caso “Sivori” con Fabio Vullo, il miglior palleggiatore italiano: ma invocando il diritto alle scelte e vincendo tutto, suonò un’altra musica rispetto a quella di Heriberto Herrera. Il tango argentino ha un altro passo, non c’è niente da fare.