Platonov e Mourinho, gli zar del Dio pallone

Posted By on Nov 27, 2019 | 0 comments


Di Matteo Quaglini

E’ tornato sul luogo del delitto, la sua amata panchina nella perfida Perfida Albione. Un ritorno lungamente atteso mentre girava la City londinese da cittadino cosmopolita o mentre commentava da navigato esperto di comunicazione la partite in televisione. Si vedeva che José Mourinho smaniava per tornare a guidare giocatori, impartendo ordini e tattiche da attuare. In fondo è il destino dei grandi generali quello di stare sul campo di battaglia appena un passo indietro alle sue truppe. Insieme ai suoi soldati.

La sua nuova casa è il Tottenham Hotspur Football Club, la squadra che rappresenta i vecchi ragazzi del borgo Haringey che nella Londra del 1882 fondarono la società. Quella stessa squadra che oggi gravita nella bassa classifica sogno frustrato delle notti Champions che furono solo un anno fa. Ci voleva una scossa in un ambiente ingrigito da sconfitte inopinate, da pareggi stentati, dai sette gol con i quali il vecchio Bayern Monaco ha rinverdito, per una sera, la gloria della sua anima bavarese.

E più elettrici di José Mourinho tra gli allenatori non ce né. La sua sfida è grande perché il Tottenham vice campione d’Europa è si una squadra forte, ma nel panorama inglese ed europeo rappresenta un po’ il bello effimero di Burke. Sempre a un passo, senza mai raggiungerla, dalla vittoria.

L’allenatore portoghese rappresenta, nell’idea del pirotecnico presidente Levy, la diversità che attraverso la competenza e la conoscenza di universi vincenti possa accendere la scintilla negli Spurs. L’uomo del destino per citare una visione che Napoleone e i suoi cronisti avevano dell’imperatore. Il Guru, con la g maiuscola che ritroverà se stesso dopo la pioggia di Manchester e tornerà “The Special One” portando alla vittoria gli eterni secondi. Tutto questo per un uomo narciso come Mourinho è manna dal cielo, è la nuova linfa sulla quale far germogliare il trionfo numero 26 della sua immaginifica carriera.

Un ritorno cominciato bene con la vittoria a domicilio sul West Ham allenato da uno dei suoi più fervidi nemici, Manuel Pellegrini. E’ il segno di una classe non ancora sopita, il ruggito del leone ferito che combatte per proteggere la Savana, almeno la sua. Mou, è ancora un re che va in battaglia. E tra re ci si riconosce sognando nuove vittorie imperiture. L’avventura di José Mourinho e il suo “come back” per dirla con la lingua di Shakespeare ci ricorda quello di un altro grandissimo allenatore di pallavolo, lo Zar di Leningrado Vjaceslav Platonov.

Quando la Federazione Sovietica lo richiamò, nel 1990, all’alba del campionato del mondo, l’Urss non era più la nazionale più vincente della pallavolo: aveva perso tutto e male. In particolare pesavano le due sconfitte con gli Usa di Kiraly oltre le quali non c’è rivincita. La finale del mondiale 1986 a Parigi dopo l’1-1 dei primi due set era stata squilibrata a favore degli americani e del loro volley “border line” dal cambio del palleggiatore il fuoriclasse Zaytsev papà del bomber italiano di Modena Ivan. Una decisione tattica incomprensibile agli stessi giocatori sovietici come dirà anni dopo Juri Sapega altro campionissimo della madre Russia dal destino coppiano.

A Seul, invece, gli americani furono nettamente superiori nel gioco e nella mentalità. Vinsero con merito abbattendo l’orso russo che cominciava a vacillare sotto i colpi di un mondo che stava abbandonando le ideologie del ‘900. In quegli anni l’Occidente e l’Oriente erano ancora divisi, tra i vincitori della Seconda guerra mondiale, in due grandi blocchi d’influenza ed anche lo sport diventava un mezzo per combattere la guerra fredda e far pendere la bilancia in favore di uno dei due imperi del mondo moderno: nella pallavolo dove viveva lo scontro generazionale tra chi vedeva il gioco attaccando e chi lo gestiva in difesa, nel basket con la mitica finale dell’Olimpia del ’72, negli scacchi col magistero di Garri Kimovic Kasparov.

Intanto, però, la sconfitta coreana lasciava il segno e apriva una ferita nell’orgoglio della Federazione che andava oltre il terrore di richiamare in servizio il vecchio Zar dei tanti trionfi. Un uomo come Platonov non è addomesticabile ai voleri del bureau, esattamente come Mourinho impone la sua legge, le sue idee, sono entrambi scomodi ma fondamentali per un progetto tecnico vincente.

L’uomo nato a Puskin sobborgo di San Pietroburgo nel 1939, aveva lasciato la nazionale nel 1985

quando gli americani batterono per la prima volta in Coppa del mondo, i dominatori sovietici della rete. La Federazione lo esonerò per l’affronto subito, dimenticando i tanti trionfi e il dominio sull’Europa che durava dal 1977. I burocrati russi si comportarono allo stesso modo di Roman Abramovic e di Woodward quando esonerarono José Mourinho dal Chelsea e dal Manchester United dando sapore acre alle ultime sue due avventure nell’isola che fu di Oliver Cromwell. Un’analogia forte questa della destituzione dei due re, che spiega il loro ritorno.

Tanto Platonov quanto Mourinho sono tornati laddove vennero mandati via: la nazionale sovietica per lo Zar di Leningrado, la Londra dei tanti successi per il portoghese. Ed entrambi nel tornare hanno subito rivinto. Il russo che assomigliava a Pietro il Grande dopo il terzo posto al mondiale brasiliano del 1990, batté l’Italia della Generazione dei fenomeni a Berlino nell’europeo del 1991 con una prova di forza che rasentò la perfezione dei tempi d’oro, 3-0 a suggellare il sesto europeo vinto dal Leone di Leningrado.

José Mourinho, invece, da due partite vince con il Tottenham dopo i tre gol al West Ham sono arrivate ieri sera le quattro reti a rimontare dallo 0-2 l’Olimpiakos nella notte dei campioni. Un segno avrà forse pensato il portoghese ricordando la rimonta della sua Inter contro il Siena da 1-3 a 4-3 nell’anno del triplete. Un segno che il vento della vittoria soffia ancora flebile ma un po’ più vicino al vecchio napoleonico istrione d’un tempo.

Uguali e diversi, Platonov e Mourinho: uno Zar e personaggio alla Dostoevskij, l’altro napoleonico e gotico. Il loro elenco di vittorie è talmente grande che non elencandolo se ne alimenta la leggenda, come nelle storie antiche degli eroi greci. Due istrioni diversi, più mattatore alla Gassman Mourinho più cinico alla Tognazzi l’austero Platonov.

Alla guida delle loro squadre sono stati grandi e manichei. Hanno diviso, hanno contrapposto, hanno polemizzato con i colleghi. Era impensabile per Platonov la ricezione a due, la specializzazione dei ruoli americana, un’eresia che combatteva ancora con la sua vecchia interpretazione della pallavolo legata all’universalità dove tutti sanno fare tutto. Negli anni d’oro del tiki-taka Mourinho è stato il Savonarola che spiegava al mondo il suo anti-guardiolismo così come il santone russo rivaleggiava in lotte ideologiche con Doug Beal.

Il rapporto con i giocatori è stato controverso, quello con la stampa differente per approccio comunicativo. Nella prima Unione Sovietica quella dell’imperiale Savin il rapporto di Platonov con i suoi era eccellente, figlio degli anni nella juniores con cui aveva vinto tre volte l’oro. Nell’Urss del ’91 la relazione fu meno naturale, giocavano due fuoriclasse Sapega e Andrej Ivanovic Kuznesov erano per tutti i fratelli del volley. Tra loro e il burbero maresciallo non c’era feeling, Platonov non li amava erano per lui troppo barocchi, troppo ridondanti della loro infinita classe, ma gli servivano e a forza di sguardi truci arrivarono ancora una volta all’oro.

L’empatia, il tutti per uno uno per tutti, l’uscita contro il nemico cavalcando come Pedro De Valdivia e i suoi hidalgos nel Cile del ‘400, è stato sempre il cavallo di battaglia di José Mourinho. Il portoghese ha fondato su questo rapporto forte i successi di Porto, del primo Chelsea di nuovo campione inglese dopo cinquant’anni e all’Inter dove la fusione di personalità toccò il suo apice sportivo.

Poi? Poi venne Madrid con la sua gerarchia rovesciata dove i giocatori contano più di tutto e dove l’orgoglio spagnolo di un capo carismatico come Sergio Ramos prevalse sul carisma oscuro di Mourinho. Un concetto rinforzato dai corazzieri di Manchester con cui non è mai scattata l’empatia della complicità. Anche in questo il russo e il portoghese si somigliano.

La stampa invece è stata per José lo scontro dialettico per eccellenza, l’esercizio di parole e suggestioni necessario per irretire sul nascere le velleità degli avversari. Un metodo appreso da Brian Clough ed Helenio Herrera, i suoi miti. Lo Zar di Leningrado, invece, da mito vivente non si è mai preoccupato troppo del Quarto potere limitandosi a comunicare le sue decisioni. Quando l’Italia di Velasco e l’Urss di Platonov arrivarono in finale all’europeo tedesco del ’91, i due allenatori promisero di bere dopo la finale dell’Olimpiade dell’anno successivo una bottiglia di vodka insieme. Quella bottiglia non venne mai stappata perché quella finale semplicemente non si giocò, ma se Vjaceslav Platonov potesse tornare oggi sulla terra, dopo essere partito nel 2005, forse quella vodka la berrebbe più che con il vecchio rivale Velasco, con il giovane José ancora una volta in pista e magari gli direbbe: “dasvidania tovarish”. Bentornato cara, vecchia canaglia di Setubal.

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