Acquarella ‘do Brasil

Posted By on Lug 9, 2020 | 0 comments


Di Matteo Quaglini

Se non fosse esistito il Brasile sarebbe stato un altro calcio. Così come se i brasiliani oltre al pallone non avessero amato la pallavolo, anche la palla in aria inventata dall’americano Morgan avrebbe avuto un altro significato. Il Brasile sia nell’uno che nell’altro sport occupa un posto centrale e preminente nella geografia, nella magia, nella storia di questi due giochi. Per questo è stato eletto “Magno”. E sempre per questo è diventato, che si tratti di un campo verde di cento metri o di un parquet diviso da una rete, una scuola di riferimento. E di emozioni straordinarie.

La storia del Brasile nel calcio nacque nel 1914, anno in cui montavano i primi focolai di tensione guerresca nel vecchio continente che sarebbero poi sfociati nella Prima Guerra Mondiale, mentre nel nuovo mondo colonizzato da portoghesi e spagnoli, gli inglesi dell’Exeter City giocavano in amichevole contro il primo Brazil della storia. Le fonti sono ondivaghe sul risultato, ma a noi interessano i principi. Era nata, ufficialmente, una grande nazione di sport. La sua prima formazione è importantissima perché cimelio storico che raccoglie la memoria di tutte le altre, comprese quelle indimenticabili e immortali dei campioni del mondo che verranno. Gli undici padri della patria della terra del Caucciù furono: Nélson I, Pennaforte, Alemão, Mica, Nesi, Dino I, Paschoal, Torteroli, Nilo, Coelho, Amaro. Di loro c’è una foto in bianco e nero mentre con la maglia bianca degli esordi giocano contendendosi il pallone di cuoio con gli inglesi vestiti a righe. Tutt’intorno piante, montagne e un palazzo a raccontare la magia del calcio brasiliano pionieristico. Da allora il Brasile ha fatto passi da gigante diventando grande e, tra calcio e pallavolo, otto volte campione del mondo.

Otto volte sul podio più alto a partire dal 1958 quando un diciasettenne Pelé goleò con un sombrero immaginifico tutta la difesa della grande Svezia di Liedholm giocatore e depositando la palla in rete dette il primo alloro mondiale dopo anni di delusioni, al 2010 anno in cui la macchina d’attacco brasiliana di Bernardo de Rezende randellò palloni nei tre metri fino a vincere il suo terzo mondiale contro la Cuba non di Fidel o Raul Castro, ma di Wilfredo Leon. Nel mezzo, quando O’ Rey dovette abbandonare per infortunio, il duo Garrincha e Amarildo a dribblare i maneschi cileni e i classici cecoslovacchi per portare sapore di Brasile nel titolo iridato del 1962 e ancora i cinque numeri dieci che regalarono la Coppa Rimet per sempre al popolo che il Trattato di Tordesillas aveva avvicinato ai portoghesi e diviso dagli spagnoli. Quello del 1970, invece, è stato veramente il Brasile più grande di tutti perché, imperioso nel suo magistero, seppe imporre il suo ritmo agli avversari, il segno della forza dei grandi eserciti. L’idea di Mario Lobo Zagallo di far giocare tutti insieme Jairzinho, Tostão, Gérson, Rivelino e sua maestà Pelé assomiglia molto ai concetti della pallavolo brasiliana. Grandi giocatori offensivi tutti insieme, tutti capaci di attaccare da ogni posizione del campo con il miglior gesto tecnico possibile, tutti complementari agli altri nei movimenti e nel pensiero di gioco a conferma che l’equilibrio va interpretato come fanno gli orientali, legandolo al talento e al suo sviluppo a briglia sciolta.

Nel calcio il Brasile realizzò questa idea in Messico, nella pallavolo lo ha fatto negli ultimi quarantanni anni, dagli anni ’80 e negli anni 2000 quando hanno giocato tutti insieme sotto la bandiera verde-oro campionissimi come Giba, Nalbert, Maurício, Marcelo Negrão e nei giorni più recenti Bruno de Rezende, Wallace de Souza, Ricardo Lucarelli, Murillo, Sergio do Santos e Ricardo Garcia per alcuni anni il più forte palleggiatore del mondo. Tutti insieme senza paura a vincer partite e trofei in giro per il globo. E così sono arrivati i mondiali della contemporaneità. Quello del 2002 con Giba e Ronaldo che idealmente hanno fuso le loro schiacciate e i loro gol, le loro difese e le serpentine funamboliche in un tutt’uno che valse il doppio titolo mondiale. E quelli del ’94 e del 2006 palio di giocate e mirabilie tecniche che collega, in una storia intrisa di sogni ruvidi da favelas e favoleggianti città, Romario a Ricardinho, André a Branco, Dante do Amaral a Cafù, Ronaldinho a Heller e Gustavo.

Il Brasile non è stato grande solo nelle vittorie che con la pallavolo sono diventate anche olimpiche oltre che mondiali e sudamericane. Il Magno Brazil è stato grande anche nei giocatori e soprattutto in quello che, con tecnica giottesca e raffaelitica, hanno saputo disegnare con una palla tra i piedi o fra le mani. Le schiacciate di Renan dal Zotto come le pennellate su punizione di Zico, le botte da posto quattro di José Montanaro e Bernard Rajzman come le cannonate di sinistro di Rivelino e Branco piedi sinistri del Padre Eterno. O, anche, la regia di Ricardo Garcia, Bernardinho, Maurício come quella di Falcão, Socrates, Dunga. E ancora i gol di Careca come i punti aggressivi e roboanti di Carlão che della pallavolo è stato a giusta ragione definito il cuore selvaggio. E tanti, tanti altri ancora.

Campioni, mai mezze figure. E i campionissimi si sa sono come era Vittorio Gassman: o Cesare o nessuno. E’ su questo presupposto che il Brasile e i suoi artisti sono andati incontro anche a cocenti sconfitte, a delusioni individuali e collettive. O tutto o niente, senza contemplare machiavelliche mentalità. Il mito del pareggio nemmeno considerato dall’ortodossia della fede massima in se stessi di Italia-Brasile al Mundial di Spagna ’82 è una delle storie più note in questo senso, prosecuzione gotica del Maracanazo che in un colpo solo tolse titolo mondiale e divisa bianca al Brasile. Era il 1950 e una nazione intera celebrava, prima dell’ultima partita, la vittoria mondiale. Un vecchio errore di presunzione e sicumera, già perpetrato da peccatori di sogni e illusioni nel 1938 quando sicuri di battere l’Italia di Pozzo e Meazza, prenotarono anzitempo i biglietti per la finale di Parigi e non schierarono Leonidas, il Pelé ante-litteram. Finì che vinse l’Italia e il Brasile tornò mestamente indietro. Anche nella pallavolo ci furono delusioni, ma meno cocenti per quanto possa essere poco amara sempre la sconfitta. Il Brasile allenato da Paulo Roberto do Freitas in arte Bebeto, che diventerà uno dei più grandi allenatori di sempre di questo fascinoso sport, e legato a Renan perse una finale mondiale e una olimpica tra l’82 e il 1984: ma l’Urss e gli Usa erano oggettivamente più forti. In quelle sconfitte il Brasile che difende, batte e schiaccia trovò insegnamenti e un’idea di gioco da copiare in parte. Non altezzoso come quello calcistico dunque, ma umile per riprovarci di nuovo dopo aver appreso. Dell’Urss che randellava palle alte con i suoi cosacchi guidati dal generale Savin, il Brasile imparò l’importanza di colpire sempre forte la palla indipendentemente dall’alzata: da qualsiasi parte del campo doveva arrivare una bordata. Dagli Usa estrapolò la difesa passando dal 2-1-3 al più spregiudicato 2-0-4 dove non c’è copertura del pallonetto e tutti difendono tutto. Con queste due componenti ha dato valore all’idea aurea della sua mentalità di gioco: attaccare l’avversario, sempre. E così ha vinto in Sud America e nel mondo.

L’attacco ossessione onirica e pratica del Magno Brasile. Chi l’ha voluto e pensato così sono stati i suoi allenatori e l’ambiente che lo ha circondato di magniloquenza. Tutti questi grandi coach assomigliano a Carlos Santana, il chitarrista dei chitarristi assieme a Jimmy Endrix, iperbolici e volutamente impegnati a suonare note “alte”, altissime.

E’ stato un crescendo da Vicente Feola che cancellò con un programma scientifico di selezione in tutto il Brasile dei giocatori più idonei, le angherie delle lotte interne al professionismo degli anni ’30 che avevano caratterizzato la Confederazione brasiliana nella contrapposizione tra San Paolo e Rio de Janeiro. E così facendo vinse il primo mondiale del 1958. Da Feola a Bebeto che insegnò ai brasiliani ad attaccare tutti insieme e così quando la palla stava per arrivare nelle mani del palleggiatore partivano tutti come fossero navi della stessa flotta che al segnale convenuto assaltano il nemico. Un principio che forse Luis Felipe Scolari, detto Felipão, riprese proprio dalla pallavolo giocando al mondiale 2002 in Corea con Ronaldo, Ronaldinho, Rivaldo, Cafù e Roberto Carlos tutti insieme.

Tra questi ci sono stati Mario Zagallo il saggio alla Obi Wan Kenobi di Guerre Stellari, José Roberto Guimarãres il monaco che realizzò in una calda notte spagnola del ’92 il gioco dalle mille combinazioni voluto da Bebeto. Non solo loro però. Bisogna citare, come fossero filosofi del pensiero sportivo, Bernardo de Rezende detto Bernardinho uno che in panchina non mai saputo cosa fosse la calma. O, anche, Telé Santana che credeva nel football bailando. Oggi il Magno Brasile dopo alcuni mondiali infausti, nei due sport, ha ritrovato il successo un anno fa in Coppa America sia nel calcio che nella pallavolo, è stato rispettivamente il nono e il trentaduesimo trionfo: a ribadire che la strada per un nuovo grande Brasile è già ricominciata. Raccontarlo tutto questo spaccato storico che ha influenzato così grandemente il football e la pallavolo e che si chiama Brasile, sarebbe straordinariamente lungo e ci vorrebbe una ulteriore dose di prolissità sintetica come dice il vecchio saggio monteverdino che veglia sulla Repubblica Romana e che di un altra Repubblica, quella brasiliana, leggerà. Sei stato Magno grande Brasile. Sei stato e sempre sarai Acquarella ‘do Brasil.

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