di Daniele Craviotto
Ci sono un francese (e uno svedese), un nigeriano, un bosniaco (e un argentino), un inglese, un colombiano, un serbo, uno spagnolo, un gambiano (e un austriaco), un argentino e un solo italiano. Sembra l’inizio di una barzelletta o la trasposizione del testo della canzone <L’arca di Noè> scritto da Roberto Grotti con le nazionalità al posto degli animali. Invece no. Questa è la realtà degli attaccanti centrali delle prime 10 squadre in serie A. Una situazione terribile non appena si parla di Nazionale. Solo Ciro Immobile della Lazio è il titolare di una di queste. Tutte le altre (le due milanesi, il Napoli, la Juventus, l’Atalanta, la Roma, il Bologna è il Verona) vedono nel proprio terminale un riferimento straniero. Quindi perché sorprenderci dei playoff dopo il pari a reti bianche con l’Irlanda del Nord? Fin da subito era chiaro che se fosse stata una lotta di gol fatti per la qualificazione diretta, pochissime sarebbero state le possibilità. Gli azzurri sono senza attaccanti abituati all’internazionalità delle sfide. Questo nonostante un girone tutt’altro che temibile. Togliamoci subito il fastidio: noi la Svizzera l’abbiamo liquidata all’Europeo nello stesso stadio dove pochi giorni fa il nostro dramma è iniziato. Dimentichiamo, però, che da lì per gli elvetici fu un crescendo continuo. Spazzata via la Turchia, eliminati i campioni del mondo ai rigori e battuti ai quarti solo ai supplementari dalla Spagna. Tutt’altro che una squadra materasso. “Come si può passare dall’impresa dell’Europeo al secondo posto nelle qualificazioni?”. Diversità di pressione. Quest’estate ci siamo presentati come matricola impazzita e tutto quello che veniva era fonte di entusiasmo e non di scontatezza. Rapporto inverso dal momento della vittoria del titolo. Scordiamo anche il fatto che su 4 incontri della fase finale, 3 (il 75%) li abbiamo risolti oltre i 90 minuti e 2 (il 50%) ai rigori. Se fosse stato un girone avremmo raccolto tre pari. Anche in quel caso si era vista la penuria di reti delle nostre punte centrali (0 gol) nel momento più caldo. Dopo questo breve resoconto, torniamo all’analisi, anche se fa male, perché scopriamo che è il sistema a non funzionare. In tutte le sue componenti. Neppure noi tifosi siamo esenti da colpe. Basta guardare il mercato delle singole squadre. Solo la Juve, tra le grandi, con il ritorno di Kean, ha scelto un italiano come acquisto per l’attacco. Giroud, Abraham, Simeone, Arnautovic, Dzeko quelli delle altre. A questi va aggiunto Shomurodov per la Roma. Arrivato da quel Genoa in cui giocava anche un certo Gianluca Scamacca e che ben aveva figurato (oltre che in Under 21). Nessuno lo ha voluto ed è rimasto a Sassuolo con un altro giovane ignorato da tutti: Giacomo Raspadori. Guardando la seconda metà (quella bruttina) del nostro campionato, scopriamo che è pieno di italiani più o meno giovani. Dato preoccupante a cui i tifosi si sono prestati. Ammaliati dall’esigenza del grande nome, hanno spinto giù dalla torre chi può costituire il nostro futuro. “Che entusiasmo può dare?”, “Non ha esperienza in una società del nostro blasone”. Non vi ricorda qualcosa? Sembrano i colloqui e le selezioni per le nuove leve sul lavoro. Giovani, ma con esperienza pregressa nel ruolo. Neolaureati, ma lavoratori da tempo (come se lo studio fosse un passatempo). Con il mantra del “farsi le ossa” i talentini italiani passano la loro carriera a girare squadre più o meno modeste, senza replica o possibilità di mettersi in mostra fino in fondo. Soprattutto le punte. È il concetto dello stage perenne che tocca i ragazzi nel restante mondo. Una continua messa alla prova che mai sfocia nell’assunzione. Finite le analogie e le responsabilità? Macché. Consideriamo la logica del profitto. Assunzione a partita IVA (costo zero) e raggiungimento di risultati per l’azienda. Bisogna essere macchine da soldi per continuare l’attività. Lo stesso vale per i giocatori, visti da chi comanda come delle plusvalenze e non come persone. Conseguenza: mancato lavoro su aspetti psicologici e umani e quindi pochissimo allenamento sulla gestione della pressione. Il <fare le fotocopie> o <il portantino> nei giovani calciatori italiani di A si tramuta nello giocare la Coppa Italia con le riserve o spezzoni di 10-15 minuti e poi via in prestito per liberare un posto per il grande nome. Esperienza europea da protagonista? Zero. Assurdo pensare che 15-20 anni fa (quando eravamo al top) erano gli italiani l’intelaiatura dei successi. Come nel mondo “reale” stanno sparendo i presidenti italiani innamorati di storia e città a favore di fondi stranieri che, se sbagliano quello prefissato o si stancano della nostra burocrazia, abbandonano lasciando il regalo di esorbitanti debiti. Per concludere in entrambi i casi a essere venute meno sono la pazienza è la programmazione. In una società del <tutto e subito> e della fame di fama non stupisce questo. Sorprende, invece, che non ci sia la volontà di mutare le cose. Neanche nello sport più amato dagli italiani. Gli stessi che per anni hanno passato il tempo (e ancora continuano a farlo) ad attaccare l’immigrazione “incontrollata”, hanno acconsentito, tra scroscianti applausi, all’invasione straniera degli attacchi delle proprie squadre. Alla fine a perdere è l’Italia. No, non sto parlando dell’eventualità di non andare per due volte di seguito al Mondiale. Mi riferisco al futuro. Non andare in Qatar certificherebbe solo che anche il calcio italiano, un tempo immune, si è ammalato e non di COVID, ma di una con due sole lettere differenti: SOLDI. Sancirebbe la cronaca di un disastro doloso di cui tutti siamo stati i mandanti.