(di Gianluca Guarnieri) Se pensiamo ai numeri di maglia nel calcio, alcuni abbinamenti ci vengono spontanei: la numero 10 a Pelé o a Maradona, la numero 5 al “Divino” Paulo Roberto Falcao, la 6 a Franco Baresi o a Gaetano Scirea e via discorrendo. L’associazione alla maglia numero 11 diviene automatica, quando si parla di Gigi Riva.
Basterebbe ricordare le sue incredibili percentuali presenze-reti in maglia azzurra (42 presenze, 35 reti) per far capire, quanto il signor Luigi da Leggiuno, fosse devastante in fase realizzativa, ed allo stesso momento, taciturno e riservato fuori. Rimasto orfano nell’adolescenza, passando in collegio gli anni della giovinezza , trovando nel calcio la propria voglia di rivincita sulle sofferenze della vita. Acquistato dal Cagliari nel 1964, Riva fece il suo esordio in maglia azzurra il 27 giugno 1965, sostituendo il bolognese Ezio Pascutti dopo 8’; l’esordio non fu fortunato (i magiari vinsero per 2-1) ma il futuro fu ben diverso, riservando momenti indimenticabili per questo campione dallo sguardo schivo, dotato di una forza morale straordinaria.
Riva divenne ben presto l’idolo di una regione intera, la Sardegna, ben diversa da quella attuale, quella di Porto Rotondo e della Costa Smeralda pullulante di “veline” e “Lucignoli” , molto più simile all’isola che generò Grazia Deledda , Antonio Gramsci, Enrico Berlinguer e che stregò in maniera totale Fabrizio De André. Un’isola che lo venerò come un semidio. Ancora oggi si vedono nei mercati del capoluogo, le foto di Luigi affiancate da immagini sacre come quelle del Cristo e della Vergine Maria: una terra che lo ha consacrato e lo consacra ai giorni nostri , idolo inarrivabile, a livelli di un Achille o di Riccardo Cuor di Leone, guerrieri nel pieno dell’iconografia del mito.
Ricordare lo scudetto del 1970, il suo contributo sbalorditivo (su 42 reti messe a segno dai rossoblu, 21 erano di “Rombo di Tuono”, vinto insieme a calciatori di valore eccelso quali Ricky Albertosi, Pierluigi Cera, Angelo Domenghini ed a un tecnico brillante e umano come Manlio Scopigno, ci fa pensare quanto sia lontano quel tipo di calcio e quel tipo di uomini, dall’attuale palcoscenico calcistico e dal suo “habitat” fatuo, che abbiamo quotidianamente sotto gli occhi.
Per molti anni, la nazionale italiana ebbe in Gigi Riva il suo massimo rappresentante e il suo terminale offensivo implacabile, agli ordini di Ferruccio Valcareggi. I suoi goal, da quello alla Jugoslavia nella finale europea “bis” all’ Olimpico di Roma nell’anno di grazia 1968, anno di sogni e di illusioni , a quello meraviglioso segnato alla Germania Est a Napoli il 22 novembre 1969, in un tuffo a “volo d’angelo” degno di un Icaro della sfera di cuoio, fino a quello alla Germania Ovest dribblando il “mastino” Bertie Vogst nei supplementari di Italia-Germania 4-3, ci riempiono di emozione e di nostalgia verso un calcio più umano, forse rustico come “pane e salame”, fatto di marcature a uomo, di implacabili confronti come quello tra Riva e Burgnich, in un duello fatto di forza, ma anche di lealtà e di reciproco rispetto.
“Rombo di Tuono”, meraviglioso soprannome coniato dal genio di Gianni Brera dopo una trionfale vittoria ai danni dell’Inter di Mazzola e Facchetti, ci manca e ci manca il suo essere “uomo vero” che non si arrende al destino avverso, materializzatosi sotto le forme di Amerigo e Norbert Hof, e dei relativi, gravissimi, infortuni, che non ha paura del contrasto sia in campo che nella vita e che resta antidivo in un meccanismo (o ingranaggio) che produce divi che durano “l’espace du matin”.
Citando Sergio Leone e i suoi personaggi, di un western rusticano, Riva fa parte di “una razza vecchia: Arriveranno altri Morton e la faranno sparire”. Un razza forse al crepuscolo, sostituita dall’effimero e dal vacuo, che rappresenta lo specchio impietoso della società odierna.