Matteo Quaglini
Tutti i protagonisti della nostra storia sono stati dei marescialli. O meglio, dei generali da panchina. Hanno guadagnato questo appellativo grazie alle numerose vittorie che come medaglie si sono appuntati sul petto al termine di campagne nazionali ed internazionali.
Dei marescialli di Francia dell’era napoleonica tutti hanno avuto in comune il medesimo tratto, l’ambizione di arrivare ad essere dei vincenti. E hanno dato battaglia per riuscirci, come fecero Massena, Davout, Ney, Soult e Murat quando combattevano per loro stessi e per il loro imperatore sui campi di mezza Europa, con determinazione e grinta per entrare nell’olimpo dei grandi allenatori.
Il loro percorso li ha portati a sedere sulle panchine di Juventus e Modena da giovani esordienti senza già aver brandito la spada del re, Excalibur. Le dirigenze del tempo li scelsero sulla base di un altro principio francese, quello dei giorni della rivoluzione: la carriera aperta al talento.
Fu così che la Panini scelse un giovane argentino professore mancato di filosofia che aveva il nome di Cesare e il cognome simile a uno dei più grandi pittori della storia, Julio Velasco. Allo stesso modo la Juventus scelse Carlo Carcano che veniva dalla scuola alessandrina ma non era ancora un Garbutt o un Weiz, nomi tutelari degli anni ’30. Anche Giovanni Trapattoni fu scelto sulla base di questo principio da Giampiero Boniperti: aveva allenato il Milan solo come assistente del grande paron Rocco.
Il medesimo discorso vale per il mantovano Daniele Bagnoli e il viareggino Marcello Lippi, due che avevano fatto gavetta in giro per la vecchia e cara Emilia e nel caso di Paul Newman Marcello come lo avevano ribattezzato a Cesena, anche a Bergamo e Napoli. Era l’anno del signore 1994 il campionato era dominato dal Milan di Berlusconi e del bisiaco Capello e nella pallavolo dalla Sysley Treviso di Benetton e del narciso Montali. La Juventus aveva salutato l’ultimo scudetto nel 1986 mentre la Panini aveva esultato per ultima volta nel 1989. Poi come per i dinosauri era venuto il tempo delle ere glaciali.
Un domanda serpeggiava maliziosa tra tifosi e addetti ai lavori: Come sperano di tornare grandi le due canute regine con questi due neofiti? Così si analizzava la scelta rivoluzionaria di Juventus e Modena nell’estate ’94 che apriva alla seconda Repubblica della storia d’Italia. E invece Bagnoli e Lippi la sapevano lunga, sotto la sguardo flemmatico di uno e il sigaro acceso dell’altro si celavano i segreti della vittoria. Tutti e due vinsero lo scudetto 1995 costruendo due squadre mitiche e tra le più belle della storia juventina e modenese.
L’allenatore di Modena richiamò nel tempio un gran sacerdote, l’esarca di Ravenna tre volte campione d’Europa, Fabio Vullo il più forte palleggiatore italiano e fu come se avesse richiamato Gianni Rivera a organizzare trame di gioco superiori nella San Siro dei trionfi milanisti. Poi l’arrivo del centrale olandese Bas Van De Goor solido in mezzo alla rete come lo saranno per Lippi, Paulo Sousa e Didier Deschamps perni tattici della Juventus del tridente, tutti tasselli in grado di dare senso tattico alla squadra.
Proprio sul portoghese e sul francese Marcello Lippi aveva impostato la struttura della sua Juventus moderna e dinamica, una squadra pronta a dare la stangata al campionato. Ora per entrambi gli allenatori mancava il compagno per sfilare lo scudetto ai rivali. A due giocatori fu assegnato il ruolo che nell’omonimo film era di Robert Redford: per la Juventus fu Gianluca Vialli centravanti immalinconito dalla saudade genovese e per Modena fu Luca Cantagalli che aveva lasciato Treviso tra le polemiche.
Due attaccanti al tramonto per i più, due vincenti su cui puntare per grinta e voglia di rivincita, molto bearzottiana come filosofia di gestione degli uomini. Con questi due bomber i giovani allenatori avevano trovato il grimaldello per forzare la serratura del campionato e mettere un cuneo, come faceva Napoleone con le sue armate, tra gli altri eserciti della serie A. Non furono queste le uniche mosse. Ce ne fu un’altra: la scelta di avere in squadra dei guerrieri.
Un’idea che Lippi aveva appreso da Fulvio Bernardini fautore si dei piedi buoni di Haller e
Bulgarelli, ma anche conscio dell’importanza dei Tumburus, dei Fogli e degli Janich, come lottatori indomiti della squadra. Per Lippi furono i Kohler, i Fusi, i Carrera, i Torricelli.
Lo stesso concetto Bagnoli lo riprese da Velasco che sempre cercava nella costruzione di una squadra quelli che non si arrendono mai, alla Anastasi, alla Passani, alla Pippi. Per questo motivo in quella Panini c’erano Babini, Dall’Olio, Bertoli gregari e campioni col senso profondo della lotta su ogni pallone.
Arrivarono due scudetti bellissimi, da Rinascimento cinquecentesco dopo l’oscurantismo. Modena vinse il campionato battendo in tre gare i campioni in carica di Treviso, un successo bissato in Coppa Italia, a Roma al Pala Eur, davanti a 15.000 persone. La Juventus batté il Milan degli invincibili e il nuovo gotha pallonaro la Lazio e il Parma.
Due neofiti che divennero subito generali. Come Angelo Lorenzetti e Antonio Conte negli anni 2000. Il primo di Fano si era formato come allenatore nella città natia, in nazionale Juniores e a Padova, l’altro pugliese di Lecce prima di tornare alla Juventus dov’era il capitano aveva imparato l’arte ad Arezzo, Bergamo, Bari e Siena. Arrivarono non come generali né come marescialli di prima nomina, ma come restauratori di un’ordine perduto. E anche qui fu subito scudetto.
Le due vecchie armeé di nuovo sul promontorio a dominare la vallata chiamata campionato, guidate da due uomini profondamente diversi: uno meticoloso e appassionato, l’altro ossessivo e martellante, uno istrionico non alla Gassman ma alla Tognazzi, l’altro conflittuale e intransigente. Modena vinse con una pallavolo ordinata disciplinata dal talento ordinato di Lorenzetti, la Juventus chiuse imbattuta come mai le era successo, nemmeno nelle sue migliori versioni bonipertiane: perché la sconfitta per il duca salentino è inaccettabile sempre.
Tra i marescialli di questi due imperi sportivi dobbiamo annoverare anche Franco Anderlini e Fabio Capello. Hanno già vinto molto quando li chiamano a sedersi sulle panchine, non sono neofiti della vittoria. Assomigliano a Davout, uno dei grandi marescialli di Napoleone. Il Prof e Don Fabio venivano da esperienze vincenti: l’Avia Pervia, il Milan e il Real Madrid agorà dei trionfi. Giuseppe e Benito Panini così come Umberto Agnelli li chiamarono perché già conoscevano la strada della vittoria. Tra urla e rimproveri seppero tirare fuori la capacità di leggere il gioco ai loro uomini.
Le vittorie del Prof furono le prime della Panini e per sempre saranno ricordate come Napoleone ricordava, nel suo memoriale, i trionfi di Lodi e della campagna d’Italia: le più importanti, quelle che elevano il soldato a generale.
Quelle di Capello furono invece macchiate dai gotici fatti di calciopoli che gli tolsero due scudetti vinti dominando il campo. E il figlio dell’insegnante Guerino diventato Don nella Spagna ancora oggi monarchica nell’interpretazione della grandezza individuale, andò via con l’amaro in bocca come la prima volta nel 1976. Probabilmente si sentì frustato e deluso della poco libertà di manovra, proprio come il generale americano Patton che le forze armate bloccarono continuamente nello sbarco più famoso della seconda guerra mondiale.
Tra i marescialli ci sono stati quelli alla Ney, il grande soldato di Francia che convogliava gli uomini senza badare troppo agli schemi della manovra militare. I Ney di Juventus e Modena sono stati il cecoslovacco Skorek, il croato Vladimir Jankovic e il livornese Massimiliano Allegri, l’allenatore che ha superato con cinque campionati consecutivi il primato di Carlo Carcano.
Perché dunque questi allenatori somigliano a Ney? Perché hanno cercato la vittoria attraverso l’indole dei giocatori. Per Skorek è stato naturale visto la sua storia da fuoriclasse della nazionale polacca campione del mondo ’74 che forgiava, con allenamenti massacranti, prima di tutto uomini. Per Jankovic è accaduto nelle sere delle finali di Coppa Campioni 1990, quando dette tranquillità a campioni che erano ossessionati da una vittoria mai raggiunta. Per Allegri è venuto naturale, quasi come il suo sorriso beffardo a fregare le angherie della vita, di Galeone non ha ripreso (pur conoscendoli tutti) gli schemi, ma la fantasia e quelle ha tirato fuori ai suoi giocatori cinque volte campioni d’Italia e due volte vice campioni d’Europa.
Chi sarebbero stati questi allenatori nell’ambito militare? Carlo Carcano potrebbe essere Berthier il fido Capo di Stato Maggiore di Napoleone, preciso e metodico, legato alla scuola militare francese come lui a quella alessandrina, due che sapevano tradurre gli ordini in pratica.
Angelo Lorenzetti è stato Eugenio di Savoia, un principe della pallavolo che resistette all’assedio
allo scudetto di Treviso. Esattamente come il principe resistette con la sua cavalleria all’impero ottomano a Belgrado nel 1717.
Marcello Lippi ha qualche tratto di Federico il Grande, le sue Rosbach e Leuthen furono le vittorie internazionali contro Ajax e River Plate che consacrarono la Juventus campione d’Europa e del mondo. Chi sarebbe stato Daniele Bagnoli? Crediamo un Turenne, il maresciallo della Francia di Luigi XIV che nel 1674-75 prese di sorpresa lo schieramento tedesco proprio come la sua Panini prese di sorpresa i favoriti di Treviso che credevano di rivincere il campionato.
Vladimir Jankovic è stato Gustavo Adolfo il re di Svezia dal 1611 al 1632 e come il dominatore del Baltico, ha dato alla Panini un posto sulle carte geografiche della pallavolo internazionale vincendo la prima Coppa dei Campioni della storia. Per Allegri non un re, ma un generale da campo. Sir Max come Sir Wellington, perché? Perché entrambi sono usciti imbattuti dalle loro campagne campali. Due algidi calcolatori di vittorie.
Del temutissimo re cartaginese Annibale il Prof Anderlini ha avuto la capacità di attraversare il valico e fondare una nuova scuola di pallavolo come la Panini, esattamente con la stessa forza fisica con cui Annibale attraversò le Alpi. Dall’oriente della pallavolo dell’Est arrivò Skorek lo Zukov di Modena, e come il maresciallo dell’Unione Sovietica fu per gli avversari un uragano invincibile.
Don Fabio Capello è stato un Giulio Cesare moderno perché ha sempre passato, nella sua grande carriera, il Rubicone del campionato. Da giocatore quando passò dalla Spal alla Roma e poi alla Juventus. Da allenatore quando da direttore della polisportiva Mediolanum divenne allenatore della squadra del secolo e poi da li della squadra della leggenda, il Real Madrid.
A oggi ancora non si sa dove sia sepolto Gengis Khan con i suoi fedelissimi mongoli al seguito, ma la feroce ricerca della vittoria, l’incedere duro e martellante negli allenamenti, l’aggressività, sono tratti che avvicinano Conte al Gran Khan d’Asia.
La chiusura per questa storia di marescialli e vittorie è con Velasco e Trapattoni, due che hanno portato lontano le loro squadre. Esattamente come Napoleone e il grande Hontario Nelson. Come il grande ammiraglio Trap solcò i mari del campionato e diventando l’allenatore più vincente della Juventus e stabilì, come fece Nelson a Trafalgar, che quei mari erano dell’impero juventino.
Le vittorie più grandi di Velasco, i quattro scudetti della Panini e i due campionati del mondo con la nazionale sono la sua Austerlitz la più grande delle conquiste napoleoniche. E come l’imperatore l’argentino costruì la mentalità vincente nei suoi giocatori. A differenza di quanto accadde a Napoleone, i suoi pretoriani, la generazione dei fenomeni, non lo abbandonarono pur perdendo all’arrivo dei prussiani-olandesi. La sconfitta olimpica, la sua Waterloo, ebbe lo stesso effetto però che caratterizzò Napoleone, non l’oblio ma il mito del sublime di una carriera da maresciallo.