di Andrea Tocchio
Rota fortunae volvitur.
La ruota della fortuna gira. E’ inutile negarlo: la buona sorte è una componente essenziale per realizzarsi e rendere concreti i propri obiettivi, indipendentemente da quale sia il campo in cui si operi. La Dea Bendata protegge e accompagna la carriera di grandissimi professionisti dello sport, che, grazie anche alla sua benevolenza, diventano col tempo leggende. In alcuni casi, però, ad alcuni smette di sorridere in maniera sin troppo repentina, talvolta tragica.
Ludovic Coeck nasce a Berchem, paese fiammingo situato nella periferia di Anversa, il 25 Settembre 1955. Muove i suoi primi passi da calciatore nella compagine cittadina natale: il ragazzino biondo è dinamico ed esplosivo. A doti fisiche ed atletiche impressionanti abbina una tecnica e una visione di gioco superiori alla norma. Nelle giovanili, data anche la sua stazza (184 cm ed una struttura possente), viene schierato da centravanti: segna valanghe di gol, tanto che il salto in prima squadra è una naturale conseguenza. Nella stagione ’71/’72, da sedicenne, si affaccia alla prima serie belga: 7 presenze condite da 7 marcature, che lo proiettano istantaneamente sotto le luci della ribalta.
In Belgio c’è una formazione che ha sempre dettato legge: l’Anderlecht. E allora, più che mai nella sua storia, stava per aprire un formidabile ciclo vincente, sia in patria che in Europa. Il 17enne Ludo, ricevute le avances dei Paars-Wit, salta al volo sul treno e diventa un bianco-malva. Ad Anderlecht, date le sue caratteristiche, gli allenatori che ne seguono la crescita (tra cui Braems, Croon e Goethals) decidono di premiare la sua prestanza e la sua potenza svincolandolo da un ruolo statico come quello dell’attaccante d’area e arretrando il suo raggio d’azione. Si evolve, dunque, nel giro di breve tempo, in uno dei migliori centrocampisti del panorama europeo, abile a ricoprire più ruoli in quella porzione di campo. E l’abitudine al gol non la perde, anzi gli frutta un soprannome lusinghiero: Coeck è Boom Boom, perché con il suo mancino al fulmicotone scaraventa bolidi nelle reti avversarie, spesso da distanze siderali.
Le strabilianti capacità di Ludo si inseriscono, pertanto, in un contesto di successo. Nel giro di qualche anno, alla base belga vengono aggiunte le idee di gioco olandesi, portate da Dusbaba, Haan e Rensenbrink, provenienti da quell’Ajax che pochi anni prima aveva rivoluzionato il modo di intendere e giocare il calcio. Questi presupposti alla base dell’incetta di trofei maturata dalla stagione ’72/’73 in poi: 2 Campionati, 3 Coppe del Belgio, 2 Coppe delle Coppe (’75/’76 – 4-2 al West Ham nella finale di Bruxelles; ’77/’78 – 4-0 all’Austria Vienna nella finale di Parigi), 2 Supercoppe Europee (’76 – batte nel doppio confronto il Bayern di Beckenbauer e Mueller; ’78 – batte il Liverpool di Bob Paisley) e 1 Coppa UEFA (’82/’83 – doppia finale col Benfica, vinta col totale di 2-1). Coeck è, grazie alle sue performances, un protagonista assoluto, nonché una bandiera di quella macchina perfetta in tono bianco-malva: le circa 300 apparizioni e la sessantina di reti segnate, insieme al suo talento cristallino lo elevano allo status di mito in madrepatria.
Come se non bastasse, il suo apporto è cruciale anche in Nazionale: con la casacca dei Diavoli Rossi, dopo aver saltato per infortunio (prima avvisaglia di un futuro a tinte fosche) l’Europeo del 1980, si distingue al Mundial 1982 rivelandosi come uno degli eroi di quell’edizione. Nell’incontro d’esordio con l’Argentina, oscura addirittura per larghi tratti il sole biancoceleste, un certo Maradona. Per la cronaca, il match si conclude per 1-0 in favore dei belgi.
La vetrina iridata espone tutta la sua qualità: le migliori squadre europee farebbero carte false per accaparrarsi le sue prestazioni, ma, per debito di riconoscenza all’Anderlecht, decide di rimanere un’altra stagione, giusto il tempo di conquistare la Coppa UEFA, come ricordato qualche riga sopra.
L’estate successiva è giunto però il momento di ritagliarsi “un posto al sole”: le sue mire sono dirette all’Italia, che in quegli anni propone il torneo nazionale più prestigioso a livello continentale. Da diavolo rosso a diavolo rossonero sembra un passo facile: incontra il vicepresidente del Milan Nardi e il tecnico Castagner, la firma è imminente. Ma, un’Inter delusa dal mancato arrivo di Falcao (il Divino è trattenuto sulle sponde giallorosse del Tevere dai tifosi e non solo), si inserisce prepotentemente nella trattativa e, per 2 miliardi di lire, lo veste di nerazzurro.
L’avventura al Biscione comincia nel migliore dei modi: presentazione in pompa magna e Boom Boom si esibisce in un italiano più che discreto, cosa desueta, se non rara, all’epoca. In campo i suoi lampi di genio gli valgono il soprannome di “Luce”. La corrente tuttavia è discontinua: gli infortuni complicano parecchio la sua permanenza sul Naviglio. Già in un’amichevole precampionato col Livorno rimedia uno stiramento. Rientra, ma a Settembre subisce una distorsione alla caviglia col Parma in Coppa Italia. Di nuovo in campo ad Ottobre, una botta al costato ricevuta in campionato con l’Udinese lo relega ancora ai box. Infine, il crack definitivo in Nazionale: partita di qualificazione ad Euro ’84 contro la Svizzera, la caviglia cede un’altra volta. Stagione finita anzitempo.
L’Inter crede nel fantasista fiammingo e nell’estate del 1984, per restituirgli serenità e fiducia, lo cede in prestito all’Ascoli. Nelle Marche, inutile dirlo, viene accolto come una star. Ma l’astuto Patron Rozzi fa inserire una clausola lungimirante nel contratto di Ludo: la società bianconera si riserva il diritto di rispedirlo al mittente senza farlo giocare, in caso di insufficiente integrità fisica dell’atleta. La fortuna è cieca, ma la iella vede bene: l’anca gli duole, i medici ipotizzano una malformazione. L’interruttore rimane sull’ OFF, la sua luce non si riaccende. Strada inversa e da Ascoli si torna a Milano.
Nel frattempo, però, l’Inter ha coperto le caselle destinate agli stranieri con Brady e Rummenigge, pertanto è costretta a rescindergli il contratto. Oltre al danno, la beffa: la sfera privata è cupa quanto quella professionale, poiché il suo matrimonio è al termine. Coeck dà una spallata ai problemi e torna in Belgio: perde un anno, dovendo operarsi inevitabilmente all’anca, ma la sua determinazione gli dice che non è ancora giunto il momento di appendere le scarpe al chiodo.
Dopo un lungo ed estenuante anno di inattività forzata, nell’estate del 1985 si accasa al RWD Molenbeek di Bruxelles. Il recupero è lento e salta le prime giornate di campionato. Alla vigilia della sua agognata resurrezione calcistica, il 7 Ottobre 1985 si concede ad un’ospitata in una trasmissione sportiva per un’emittente televisiva di Bruxelles. Uscito dagli studi, sale sulla sua BMW per rincasare. All’altezza di Rumst, però, il Fato lo attende: sulla strada che congiunge la capitale ad Anversa, Boom Boom rimane vittima di un incidente. La sua vettura si incastra tra un camion e un guardrail, lui riporta lesioni multiple a fegato e cranio (tra cui una tremenda emorragia cerebrale). L’ambulanza lo porta celermente alla vicina clinica dell’Università di Anversa, ma le cure sono vane: Ludo combatte, ma la sua stella si spegne due giorni più tardi.
Levis est fortuna; cito reposcit quod dedit.
La fortuna è instabile; presto chiede indietro ciò che ha dato.