Da Sun Tzu a Mazzola e Giani, storia di vittorie azzurre

Posted By on Ott 5, 2019 | 0 comments


Di Matteo Quaglini

La Serbia ha vinto, alcuni giorni fa a Parigi, l’europeo di pallavolo. Una grande vittoria per la squadra slava che battendo la Slovenia, è uscita finalmente dalla prigionia del sogno per abbracciare l’estasi dell’oro. Un salto in avanti di Kovac e i suoi che hanno raccolto un risultato straordinario, abbattendo i sogni della Francia che già intravedeva la sua “grandeur” pallavolistica nella Parigi dell’ex impero.

Il cuore serbo di Lisinac centrale rapido e velenoso con le sue veloci, di Uros Kovacevic martello mancino rapinatore di punti sotto rete, di Petric elegante e talentuoso capitano, di Atanasijevic bomber da prima e seconda linea, ha portato la Serbia eterna piazzata oltre l’ostacolo della nuova sconfitta e col suo gioco improntato sul tutto o niente a trionfare sulla Polonia due volte campione del mondo e sulla narcisa Francia dei campioni eccentrici alla Boyer o alla N’Gapeth.

Una vittoria che deve servire da esempio all’Italia che si è battuta poco e male naufragando sul piano del gioco e della mentalità di fronte ai francesi.

Un crollo in tutti i reparti e in tutti i fondamentali che fa fare alla nazionale un passo indietro grande e pone una questione tecnica rilevante: perché quando l’avversario è forte, noi regolarmente scompariamo dal campo senza lottare? La risposta è nella storia delle nostre partite contro la Jugoslavia (dal cuore serbo) nel calcio e nella pallavolo. In tutte quelle partite cioè dove c’era qualcosa di grosso in palio.

A distanza di trent’anni, dal 1968 al 1998, li affrontiamo in due storiche finali: una che vale l’europeo, l’altra che assegna la corona mondiale. Furono due finali simili che l’Italia vinse sapendo mettere in pratica un principio importantissimo nello sport: imparare dalle sconfitte precedenti. Un insegnamento che viene dallo studio, profondo e accurato delle qualità tecniche e caratteriali dell’avversario.

L’Italia attuale della pallavolo non ha saputo mettere in campo questa dote che anima le grandi squadre e che caratterizzò le partite dell’Italia di Ferruccio Valcareggi in quelle caldi nottate napoletane e romane del ’68, così come accadde nella finale mondiale giapponese che dette il terzo campionato del mondo alla Generazione dei Fenomeni allenata, per l’occasione, da Bebeto. Anche quelle due grandi squadre avevano perso prima di trovare la vittoria dell’estasi.

La Jugoslavia della stella Dzajic ci irretisce per 80 minuti nella finale di Roma, è l’8 Giugno del 1968 e i venti della rivoluzione culturale sono già arrivati nell’Italia conservatrice delle tradizioni familiari e del gioco del football. Ci travolgono sul piano del gioco con la loro modernità che nella cronologia della storiografia del pallone viene prima di quella olandese.

Una modernità però diversa da quelli dei dioscuri Orange che la esportavano come segno di libertà e affrancamento dal confino in cui il Dio pallone li aveva relegati per decenni. Quella olandese era una guerra d’indipendenza agli stereotipi della loro inferiorità calcistica intrapresa con la stessa forza e lo stesso impeto di coraggio che ci mise la casa d’Orange, tre secoli prima, contro la Spagna del dispotico Duca D’Alba.

Gli Jugoslavi con le loro sovrapposizioni dei terzini, il fraseggio fitto e corto, il pressing a ingabbiare i palleggiatori avversari, i tanti uomini dentro l’area per aumentare le possibilità di fare gol, non volevano diventare una scuola ma solo giocare a calcio per farne una loro espressione estetica non una forza ideologica.

E, giocando a calcio, ci dettero una lezione a casa nostra. Ci salvò Angelo Domenghini, Domingo per tutti, ala fluidificante della Grande Inter di Don Helenio. Una punizione a battere Pantelic e la possibilità di riprovarci di nuovo, imparando dagli errori.

La Jugoslavia di Mitic giocava benissimo e noi con una formazione sbagliata rischiammo grosso, ma fu qui che apprendemmo l’insegnamento dei maestri dell’Est: il saper osservare una partita. E’ il principio degli allenatori orientali e anche degli slavi: segui il gioco, segui il pallone e troverai il bandolo vincente di una partita complessa. Ferruccio Valcareggi seguì l’insegnamento e cambiò

cinque giocatori, rovesciando di fatto la squadra: entrarono Salvadore, Rosato, De Sisti, Mazzola e Gigi Riva, e fu un’altra squadra più forte centralmente, più rapida e fulminea in contropiede.

Avevamo visto che cinque giocatori non erano andati bene e che tutta la squadra soffriva centralmente, così cambiammo con la forza degli umili che riconoscono nell’avversario superiorità tattica e tecnica. L’Italia giocò un bel primo tempo con attenzione difensiva e contropiede mentre gli slavi provati dalla sfida di due giorni prima e con un solo cambio fecero solo intravedere i tratti distintivi del loro gioco armonico.

I migliori furono De Sisti e Mazzola che tennero la fascia centrale magistralmente con l’ordine geometrico e le coperture del primo, e gli strappi offensivi del secondo schierato non in attacco ma a centrocampo. Difendemmo da par nostro senza però subire occasioni evidenti e ci lanciammo in contropiedi, la nostra arte per eccellenza, con Domenghini a destra e con Facchetti a sinistra. Gli slavi stanchi e appesantiti da due gol non seppero recuperare nel secondo tempo e per l’Italia fu il primo e unico europeo vinto.

Avevamo osservato l’avversario e capito, per questo avevamo vinto. Lo stesso copione lo recitammo trent’anni dopo in Giappone nella finale mondiale ancora una volta giocata contro la talentuosa e robusta Jugoslavia dei fratelli Grbic. Quattro giorni prima, il 25 novembre 1998, ci avevano battuto come fecero i loro zii (li solo sul piano del gioco) nel ’68, nettamente. Tre set a zero e la sensazione che il passaggio di consegne tra i vecchi campioni e i nuovi fosse cosa fatta. Invece anche Bebeto, che veniva da mondi più lontani della verde Toscana, si comportò con “Zio Uccio” osservò e mise in campo una squadra migliore: più attenta e granitica a muro, più forte nel contrattacco. Tante sono state le analogie in quelle partite, tanti i dettagli che ci dettero una nuova vittoria dopo trent’anni dal mondiale francese vinto da Piola e Meazza e il terzo mondiale di una generazione che ha fatto la storia della pallavolo internazionale.

Nella formazione che vinse la Jugoslavia il 10 Giugno del 1968 in un Olimpico gremito c’erano cinque giocatori della Grande Inter, la roccia Burgnich, lo stopper Guarneri, Giacinto Magno come lo chiamava Brera e insieme a Facchetti, il faticatore Domenghini che giocava vicino al principe erede al trono della classe paterna Sandro Mazzola. Anche nell’Italia della pallavolo ci fu un blocco che arrestò gli slavi dal cuore serbo. Erano tutti ragazzi che avevano già lavorato con l’allenatore brasiliano nella Maxicono Parma campione d’Italia: Gravina che era l’essenza del fondamentale di muro, Bracci il Leonida del ‘300 pallavolistico che non uccide il lupo ma è il lupo, Giani l’esempio massimo dell’atletismo bebetiano e Corsano il libero che guida la difesa.

Con l’idea del blocco arrestammo, in entrambe le partite, la tecnica slava. Nel calcio fu il muro di De Sisti e di un Mazzola capace di rientrare e contrastare, il nostro limes invalicabile. Nella pallavolo con due muri a tre su Vujevic e Vladimir Grbic girammo il primo equilibratissimo set in nostro favore, dove l’ultimo punto può essere associato al primo gol di Riva che raccoglie un tiro sbilenco di Domingo e gira a rete col suo sinistro tagliente. Esattamente come, con meno potenza e suggestione ma uguale efficacia, il patavino Pasinato mise a terra il 15° punto per l’1-0 dell’Italia bicampione del mondo sui guerrieri che venivano dall’Est e che si battevano per la bandiera.

Il gesto tecnico in una partita che decide è tutto. E nel secondo set i vecchi legionari di mille battaglie misero in campo tutti i loro colpi migliori. I contrattacchi di Giani alti sulle mani, le doppie veloci avanti di martello e centrale, l’utilizzo di un grande giocatore come Fefè De Giorgi pronto ad entrare dalla panchina. Arrivò così il terzo set e sul campo ci furono due sole cose, da una parte l’orgoglio smisurato e nobile degli jugoslavi spinti da Geric e Nicola Grbic mentre il fratello Vladimir giocava con la rabbia dei principi ereditari in collera col padre nelle mitiche storie medievali. Dall’altra il colpo a una mano di Papi acrobatico nel raggiungere il pallone sulla rete come lo fu Anastasi, il Pietruzzu catanese che in mezza rovesciata stese definitivamente la difesa jugoslava a Roma.

Due trionfi nel segno dell’osservazione. Due vittorie festeggiate in modo pagano con la fiaccolata romana a celebrare col dio fuoco la purezza del trionfo e l’abbraccio finale della Generazione dei Fenomeni consci di essere nella storia. Lontano fin dove nemmeno la grande Unione Sovietica di Savin era arrivata, ai tre titoli mondiali consecutivi. Furono, forse per un gioco cinico degli dei dello sport, anche le ultime nostre vittorie in quelle specifiche competizioni.

Infatti sono passati cinquantuno anni dalla notte in cui Facchetti alzò la coppa d’Europa e nelle successive dodici edizioni più nulla c’è stato per noi del paganesimo della vittoria. Così nella pallavolo dopo quel pallone di Samuele Papi, samurai indomito della palla in aria, non abbiamo più vinto il mondiale cedendo il trono al Brasile prima e alla Polonia poi.

Quelle grandi vittorie restano, come resta il principio che le creò: l’osservazione degli avversari. Un concetto che nel mondo antico, alcuni millenni prima dell’era cristiana, aveva spiegato con la maestria della retorica orientale mai fine a se stessa e sempre volta a entrare nel cuore degli uomini, Sun Tzu: “Se conosci te stesso e il tuo nemico di sicuro vincerai”, che grande allenatore di calcio e pallavolo sarebbe stato il grande generale cinese per i suoi giocatori.

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