Di Matteo Quaglini
Da re quali sono stati hanno avuto una lunga corte di seguaci. Giocatori compagni di squadra, allenatori, tifosi, tutti in qualche modo sono stati al loro fianco come dei cavalieri. O, se preferite visto che parliamo di francesi, come marescialli al servizio dei loro imperatori.
Due primi attori, Michel Platini e Alain Fabiani il miglior “passeur” della nazionale francese di pallavolo degli anni ’80. Due re dalla desinenza finale del cognome quasi identica, due rifinitori del gioco, due campioni che amavano vincere anche quello sport francese che tende più ad ammirare la grandezza del gesto che a soffermarsi sulle pieghe nude e crude del risultato.
Il primo tratto che li accomuna, infatti, è proprio quello della ricerca soave ma decisa della vittoria. Un retaggio chissà della famosa e alcune volte troppo abusata mentalità della “grandeur” tutta francese, tutta da impero Napoleonico, tutta da antichi re medievali. Di Carlo VIII, il famoso re francese che scese in Italia negli anni ’90 del’400 per allargare il dominio della Francia oltre i confini giocando la sua partita d’espansione nelle omonime Guerre d’Italia, Platini e Fabiani hanno avuto proprio questo: il senso di espandere oltre i confini nazionali la loro immensa classe.
Per Platini l’approdo naturale è stato l’arrivo alla Juventus e nel campionato italiano, il più difficile, il più articolato, il più complesso tatticamente e dialetticamente al mondo. Per Fabiani il viaggio verso la gloria che arriva e non va più via è stato l’aver riportato la Francia a vincere medaglie europee, seppur non l’oro, in una pallavolo dominata dal grande e famelico orso sovietico di Vjaceslav Platonov e Aleksandr Savin.
Da novelli Carlo VIII hanno imperato con maggior fortuna del re francese. Giocavano ambedue con classe sopraffina, ma mai fine a se stessa. Non erano barocchi, erano rotondi. Uno con i suoi passaggi lunghi e taglienti metteva la palla alle spalle dei difensori e sui piedi di Bettega, Rossi e dell’amico di goliardie Zibì Boniek. L’altro col suo palleggio morbido e costantemente preciso creava la Francia delle veloci al centro, degli schemi combinati, dell’opposto chiamato ad attaccare velocemente dietro le spalle e del martello in grado di chiudere il punto prima del muro avversario, nella classica azione in posto 4.
In questo sono stati identici tanto era leggero il loro tocco che apriva il gioco come solo i migliori registi sanno fare. Lanciavano i compagni nella traiettoria che loro vedevano e che immaginavano vincente. Le curvature che Alain Fabiani dava al pallone, riviste oggi nel decisivo Francia-Brasile dei mondiali parigini del 1986, somigliano molto alle curvature con cui Platini faceva planare la palla al di la della barriera e in fondo alla rete con le sue punizioni. Un doppio gesto tecnico sineddoche del tutto.
L’essenza del gioco di Le Roi Michel e del “passeur” Alain stava nella loro calma esecuzione, perfetta stilisticamente, precisa tecnicamente, risolutiva emotivamente. Mentre tutti correvano o si tuffavano sulla palla, mentre andavano a muro o marcavano l’avversario, i due re quasi si estraniavano dal gioco per giocare il loro colpo migliore. Era apparenza che dava sostanza a tutta una partita. Nella bolgia del parquet con i compagni che esultavano per un punto o si mettevano le mani nei capelli per una murata subita, Fabiani continuava a distribuire il gioco senza influenza da risultato, senza isterismi figli dell’agitazione che da miopia ai giocatori impedendogli, dopo, di vedere e capire lo sviluppo del gioco.
Lo stesso faceva Platini quando dopo il fischio dell’arbitro metteva a due mani il pallone a terra, faceva alcuni passi indietro e si metteva obliquo rispetto alla barriera e al portiere ostacoli che rappresentavano il muro da valicare. Poi la rincorsa soave, il piede perno vicino al pallone, l’altro il destro a scavare la palla che volava morbida e tagliente sotto la traversa a morire in gol. La classe del gesto che tutto risolve, così con naturalezza.
E proprio la naturalezza è stato il tratto della loro carriera, la pietra filosofale del loro modo di condurre i compagni in campo, il perno di tutto il loro gioco fatto di invenzioni come quando Platini segnò all’Argentinos Junior o Fabiani chiamò i suoi attaccanti agli incroci avanti contro il magno
Brasile. La loro storia con la Francia è stata come quella di Luigi XIV, solare. E come il Re Sole della Francia seicentesca ha brillato di luce propria nel mondo del calcio e della pallavolo. Prima di tutto sono stati due grandissimi in un mare di campionissimi. Le Roi era contemporaneo di Maradona, e già questo basterebbe, di Antognoni, di Zico. L’uomo che veniva da Algeri e che giocherà 392 partite con la marsigliese nel cuore e sulle labbra, palleggiava negli anni di Kim Ho Chul, di Jeff Stork, di Fabio Vullo, tutti fuoriclasse del passaggio.
Poi, come dicevamo la nazionale. Il momento massimo per un francese è fare qualcosa per la Francia e per la sua gloria, molto napoleonica come sensazione emotiva. La vittoria, poi, è relativa perché è già nell’idea di giocare meglio degli altri come capitava alla Francia di Platini e a quella di Fabiani, il trionfo. Non è un caso che le due partite più belle di questi augusti re, siano state Francia-Germania a Siviglia ai mondiali di Spagna ’82 e Urss-Francia finale del campionato europeo di pallavolo a Belgio ’87. Due sconfitte che per altri sarebbero state brucianti e che avrebbero trovato cittadinanza solo nell’angolo più remoto della memoria, furono per loro il massimo dell’espressione estetica del loro gioco: la vittoria, segno volgare del nostro tempo per dirla con Vittorio Gassman, vale meno molto meno di un momento estatico fatto di una pennellata alla Platini o di un palleggio rovesciato alla Fabiani.
La Francia della pallavolo sotto Fabiani ha sfiorato la vittoria, quella di Platini l’ha conseguita all’europeo casalingo del 1984. Quella squadra che si avvaleva di grandi scudieri del re con Luis Fernandez, Bernard Genghini, Jean Tigana, Alain Giresse e gli attaccanti Lacombe, Six e Rocheteau, girava tutta intorno al Voltaire del Dio pallone. Nove gol, compreso quello al 119° minuto del secondo tempo supplementare al Portogallo ante-Cristiano Ronaldo, per vincere il primo alloro e raccogliere come disse Napoleone poco prima di Waterloo, la corona dal fango della prigionia del sogno.
Tanto Michel quanto Alain hanno traghettato la Francia verso le vittorie future. Prima sono stati gli eredi calcistici di Raymond Kopa, Michel Hidalgo e Just Fontaine vice campioni d’Europa con lo Stade Reims e terzi al mondiale di Svezia, quello che fece conoscere al mondo la stella di Pelé. Poi hanno raccolto trent’anni dopo il terzo posto all’europeo di pallavolo dei padri fondatori anni ’50 e afferrando l’argento hanno aperto alle vittorie degli anni duemila di N’Gapeth e compagni di Francia.
Un percorso che firmato Platini come ambasciatore apripista della vittoria porterà il Marsiglia a vincere la prima e unica Coppa dei Campioni di una squadra francese e la nazionale di Zidane e Deschamps sul tetto del mondo nel 1998, l’anno in cui anche il Brasile dovette arrendersi in finale alla “rivoluzione” calcistica d’oltralpe. Eredi, precursori e contemporanei, questo sono stati Platini e Fabiani. La storia li ha messi vicino nell’anno del Signore 1987.
L’ultimo anno di Michel Platini nella Juventus e nel campionato italiano, l’unico anno di Alain Fabiani nella Santal Parma la grande rivale, in termini di scudetto, della Panini Modena. Quell’anno lottarono con il loro senso di ricerca della grandezza contro Maradona e il suo Napoli e contro Velasco i suoi pretoriani modenesi, ma il tempo dell’arco di trionfo parigino traslato nel mondo era finito. Le Roi si ritirò a fine stagione, il 17 maggio 1987, al termine di Juventus-Brescia 3-2 le ginocchia e le caviglie erano al passo d’addio. Le gran “passeur” si ruppe in dito in gara 4 della tesissima finale con Modena che vinse gara cinque senza che d’altra parte ci fosse il regista francese. Due addii amari all’Italia, ma comunque fiabeschi e romanzati come piaceva a loro campioni illuministi del momento estatico.
In Italia hanno vinto ambedue una coppa Italia battendo Verona e Modena e lottato per lo scudetto e la Coppa Campioni che l’uno ha vinto e l’altro solo sfiorato col suo Fréjus. Poi sono tornati in Francia uno ad allenare e poi a fare il dirigente fino all’approdo alla presidenza dell’Uefa, l’altro ha continuato a giocare fino al 1992 anno zero del Novecento ormai al crepuscolo. Probabilmente sia Michel Platini che Alain Fabiani una volta tornati in patria, si sono ricordati dei loro inizi giovanili e delle prime squadre il Nancy e il Saint – Etienne per Michel e l’As Cannes, l’Asul Lyon e il Paris UC per Alain, tutte squadre con cui hanno vinto coppe e campionati, aprendosi la strada verso il trionfo internazionale. Una strada intrapresa alla maniera di Carlo VIII, da re di Francia appunto