Di Matteo Quaglini
Due grandi tessitori di gioco. Due dispensatori di idee e di traiettorie. Uno Fabio Vullo da Massa città di Alberico I Cybo-Malaspina marchese e principe, fuoriclasse del palleggio. L’altro Andrea Pirlo da Flero provincia di Brescia. Il significato del nome Flero è custodito dalla toponomastica carolingia alla parola Freores, dal bizantino Frear che significa sorgente: e non c’è dubbio che Andrea Pirlo sia stato la “sorgente” alla quale le sue squadre si sono abbeverate.
Due giocatori algidi, imperturbabili, inattaccabili qualsiasi cosa accadesse attorno a loro, capaci con un solo passaggio di aprire il gioco e condizionarlo ai loro voleri. Due direttori d’orchestra in grado di dare i tempi ai compagni, migliorandoli. Chissà forse, in cuor loro, hanno giocato sempre con la vecchi massima che Liedholm raccontava ai suoi attaccanti per spiegargli l’importanza di ruminare il gioco, nell’esegesi della filosofia della “ragnatela”: “alla fine arriverà sempre una palla buona”. E’ il vecchio principio di carpire, da un altro che già sa, il sapere e farlo proprio riproponendolo con il tratto della diversità.
Una diversità che Fabio Vullo ha maturato nel gioco regolare, nell’attenzione alla tattica che per un palleggiatore è tutto, ma non nel suo dogmatismo. Dopo la finale della coppa Italia 1994 che riportò Modena a una vittoria attesa quattro anni, criticò la paranoia della tattica che tutto scruta e registra, nemmeno fosse 1984 di George Orwell . Fu una denuncia importante, perché presupponeva uno schieramento nella pallavolo manichea di allora: la sua era una posizione da grande equilibratore, ne troppa fantasia a disturbare la visione del gioco ne la troppa tattica a irrigidire il libero arbitrio delle scelte che un palleggiatore deve compiere azione dopo azione.
Nel servire i compagni, infatti, c’è sempre stata in Fabio Vullo più precisione che la fantasia di Kim Ho Chul, sempre più attenzione alle caratteristiche degli attaccanti distribuendo il gioco tra gli obici, piuttosto che armarne soltanto uno. La fiducia, massima, nella scelta su chi servire senza ripensamenti, da comandante assoluto.
In questo Andrea Pirlo è stato identico: attento alla miglior corsa dei giocatori che gli ruotavano intorno, scegliendo quello meglio posizionato ad insinuarsi nello spazio che il suo allungo aveva prima immaginato e poi aperto. Se Fabio Vullo è stato l’equilibratore, Andrea Pirlo è stato il Gran Cerimoniere di Palazzo capace di vedere il gioco anche prima dei grandi allenatori che ha avuto.
Quando Fabio Vullo cominciò a giocare erano gli inizi del 1975, palleggiava in giro per le palestre Mattioli dioscuro dell’alzata, guardare e copiare il gesto tecnico del campione è un metodo dei giovani che hanno dentro di loro il “campione”, serve per imitare e poi acquisire quella che sarà la loro diversità. Con questa idea gli esordi sono nella Pallavolo Massa che lo svezza fino al 1982, l’anno di un altro dioscuro della regia che esordisce in Italia: è Kim Ho Chul arrivato col suo “Oriente pallavolistico”a cambiare per sempre il campionato.
Ne ha di classe da vendere l’alto Fabio (1,98 m), così lo acquista la Klippan poi Cus Torino del Professor Silvano Prandi. Vince l’ultimo scudetto del Toro nel 1984 servendo i suo martelli e centrali come fosse Claudio Sala al cross per Paolino Pulici e Graziani.
Con questa idea della precisione e della pulizia del tocco lo chiama a Modena Julio Velasco per sostituire uno dei simboli della squadra e della nazionale italiana: Francesco Dall’Olio, il primo palleggiatore italiano a raggiungere una finale del campionato del mondo. Sulla via Emilia grandi ed epiche sono le sfide con la Santal Parma, poi Maxicono. Diventa il palleggiatore dei quattro scudetti consecutivi che stanno al calcio come il quinquennio d’oro della Juventus o il periodo della Grande Inter, per rimanere in tema di Hidalgos argentini.
Le sfide con il francese Alain Fabiani e gli americani Jeff Stork e Dustin Dvorak assomigliano a quelle battaglie tra generali del ‘700 alla Federico Il Grande di Prussia, dove la strategia cioè è il tratto esclusivo di qualsiasi mossa: eterna partita a scacchi, l’esaltazione della logica e della precisione.
Nel segno del comando, senza che vi sia la reincarnazione della famosa serie televisiva anni ’70, Fabio Vullo ha vinto ovunque sia andato a palleggiare: segno distintivo di pochi eletti anche tra i grandissimi. Campione con l’ultimo Torino della pallavolo, leggenda nella Modena di Velasco e Daniele Bagnoli dieci anni dopo, tre volte sul trono d’Europa nella Ravenna di nuovo eletta ad esarcato dell’impero e poi campione degli ultimi scudetti, quelli da sipario di Treviso e Macerata.
Gli inizi di Andrea Pirlo ricordano molto quelli di Fabio il demiurgo. Da Flero a Brescia il passo è breve e l’apprendistato dura sei anni fino al 1998, l’anno dei mondiali della Francia nuovamente in odore di “grandeur”. Anche il secondo passo ricalca la traiettoria del più forte palleggiatore italiano: l’approdo da giovanissimo in una grande squadra, l’Inter. Ma prima di arrivare al Milan e alla Juventus dove eserciterà il suo magistero come Herbet von Karajan dirigeva l’orchestra, c’è da farsi le ossa a Reggio Calabria, con la maglia della Reggina.
Questo è un passaggio importante nella nostra storia incrociata, perché Andrea Pirlo trova il suo talento per le punizioni. Nasce la primo genitura della “maledetta” che è l’equivalente delle tese, delle veloci, delle alzata a banda e di quelle di rovescio sull’opposto del marchese Fabio Vullo. Nascerà lì, nel nobile Sud, il Pirlo continuatore di Corso e Platini, l’emulo di Roberto Baggio, rivale nelle classifiche di tutti i tempi dei tiratori liberi di Mihajlovic e Batistuta.
Quando torna a Brescia, nel 2001, avviene la seconda trasformazione tecnica che gli apre la carriera a diventare un Vis Clarissimum: Carlo Mazzone lo fa giocare regista davanti alla difesa. Nasce il lancio alla Pirlo, il primo a raccoglierlo è Roberto Baggio che segnando alla Juventus consegna col gol dell’1-1 una parte dello scudetto al Bisiaco Fabio Capello e alla sua Roma di campioni. Da qui in poi Andrea Pirlo sarà come Fabio Vullo un comandante e le due carriere quasi si toccheranno seppur solo a distanza: Entrambi signori dello scudetto, 8 per il massese e 6 per il bresciano, entrambi esordienti in serie A giovanissimi, entrambi coinvolti nella grandezza della sconfitta: la sindrome di Istanbul e l’arancia meccanica olandese dei Giochi Olimpici 1992.
La loro diversità l’hanno messa in mostra in nazionale. Un capitolo che merita una storia a parte, tanto è suggestivo ed iconico del tempo “azzurro”. Per ora in attesa che il romanzo della nazionale sveli le sue pagine, resta incredibile la sintesi: Andrea Pirlo è stato il regista della nazionale campione del mondo a Berlino, Fabio Vullo ha giocato 139 partite azzurre senza appartenere alla generazione dei Fenomeni. Per un tenore della regia da 7 coppe dei campioni è stata la giocata più difficile, essere grande fuori le mura. Esattamente come sosteneva Carlo VIII re della Francia quattrocentesca, ed esattamente com’è stato Andrea Pirlo altro dioscuro dell’organizzazione del gioco. Entrambi sono stati dei fuoriclasse. E degli irripetibili.