Di Matteo Quaglini
Sandro Mazzola e Franco Bertoli sono stati dei moschettieri del re. Devoti alla causa, combattivi, mai domi, sempre pronti in partita allo slancio, due campioni che hanno rappresentato appieno l’idea del cuore oltre l’ostacolo. Entrambi hanno fatto la gavetta. Sandro, figlio del mito Valentino, ha iniziato nel 1957 nelle giovanili dell’Inter e come il padre è poi diventato nel 1970 capitano. Franco ha ricevuto, murato e schiacciato per la prima volta nel 1976 nel Petrarca Padova accademia pallavolistica di campioni tra le più fulgide d’Italia. Uno, Sandro è piemontese nato a Torino l’8 novembre del 1942. L’altro, Franco è friulano di Udine del 1959. Dei loro popoli, delle loro “nazioni” di appartenenza hanno portato tutto sul campo: l’araldica orgogliosa di appartenere a una casata grandissima del calcio italiano, Sandro. La capacità di lottare, di difendere quello che si è conquistato, Franco.
Gli esordi o meglio i primi passi sono stati fondamentali perché li hanno messi da subito sulla strada del grande calcio e della pallavolo nazionale e internazionale. Mazzola ebbe come mentori in quegli anni giovanili Benito Lorenzi e Giuseppe Meazza, due miti indiscussi e indiscutibili della storia dell’Inter. Il padre putativo di Bertoli fu l’allenatore dei suoi esordi patavini, Nereo Baliello.
Una volta svezzati spiccarono il volo che appartiene ai campioni. Sandro Mazzola divenne una bandiera dell’Inter in Italia, in Europa e nel mondo. Gli scudetti vinti facendo parte della vecchia guardia di Herrera, la doppietta al Real Madrid di Puskas e Di Stefano nella suggestiva notte viennese, i tre gol “intercontinentali” agli argentini dell’Independiente campioni da romanzo del calcio argentino anni ’60, la rete alla Juventus di Sivori a quattro giornate dalla fine del campionato ’62-’63 che valse il primo trionfo della Grande Inter, l’Europa conquistata a suon di lanci in contropiede che Suarez faceva per il suo scatto secco e fulmineo, sono tra le fotografie più grandi del suo fascinoso album calcistico.
Il volo di Franco Bertoli, sul parquet e sotto rete, è stato multiplo. E di tre squadre è diventato bandiera. Nel Torino pallavolo ha trovato per la prima volta la vittoria, in campionato come in Coppa Campioni. In quella squadra è diventato mano di pietra, il soprannome che simboleggiava la potenza dei suoi colpi in attacco a cui nessuno resisteva in difesa. Di quel Torino campione d’Europa in Turchia ad Ankara nel 1980 (prima squadra non dell’Est Europa a diventarlo) ha incarnato la storia che aleggia maestosa e soave su quella maglia, il tremendismo granata. Una stella come quella che Mazzola si appuntò sul petto della maglia nerazzura, nel 1966. Lì, nella Torino che schiaccia, Bertoli ha trovato anche un laccio involontario ma magico con Sandro Mazzola, nell’indossare la maglia del Grande Torino che fu di papà Valentino. Poi, nel 1983, il trasferimento a Modena e dopo le prime vittorie in Coppa Cev, l’incontro con Velasco che lo rifinisce nella conoscenza dei gangli della mentalità vincente. Arrivano i quattro scudetti consecutivi (’86-’89), le finali in Coppa Campioni dove nemmeno la sua mano d’acciaio riesce a valicare il grande muro sovietico dei campioni di “Guerra e Pace” del Cska Mosca. Ma il trionfo europeo è rimandato di un stagione e nel 1990 arriva la vittoria in Coppa Campioni contro i francesi del Frejus: è la seconda come per Mazzolino, per dirla con Nicolò Carosio.
La strada di Sandro e di Franco si è ricongiunta anche dopo il 1990 quando Bertoli è andato a giocare al Milan che gioca sotto rete di Berlusconi assieme a un nuvolo di campionissimi da Zorzi a Stork a Lucchetta. Nel segno del rivale di sempre di Sandro Mazzola, quello dei tanti derby milanesi vinti e perduti, quello della rivalità-amicizia con Gianni Rivera, quello del gol più veloce segnato il 24 febbraio 1963 dopo ”13 secondi da Sandrino nella storia di questa epica partita, c’era il sogno di mano di pietra di vincere ancora.
Arrivarono la Coppa delle Coppe e la Coppa del mondo per club, che in un certo senso si sposano con le due coppe intercontinentali di Mazzola. Il figlio dell’immaginifico Valentino è stato una icona senza tempo dell’Inter, Franco Bertoli ha lasciato il cuore a Modena. Nella città che incarna la pallavolo, tornò nel 1994 per randellare ancora da martello gli avversari. Giocò da settimo uomo, alla Altafini, alla Montella, e vinse la Coppa Italia. L’ultimo trofeo prima del ritiro. Anche qui nasce il parallelismo, perché l’ultimo successo di Sandro Mazzola fu la Coppa Italia 1977.
Ancora tre gemme mancano per chiudere il racconto di quei diamanti che sono stati, nel panorama sportivo italiano e internazionale, Bertoli e Mazzola. La prima è che hanno avuto grandi allenatori. Meazza, Silvano Pradi e Doug Beal gli hanno insegnato i fondamentali e un gioco nuovo. Velasco e Herrera gli hanno insegnato a vincere e a continuare a percorrere la strada del successo. Lozano, Daniele Bagnoli e Valcareggi ne hanno liberato la fantasia e definito anche il ruolo di raccordo tattico nella squadra.
La seconda gemma è il numero. L’8 di Sandro Mazzola e il 4 di Franco Bertoli hanno sapore della maglia indelebile, del numero che partita dopo partita si eleva a simbolo delle giocate tecniche di ciascuno, come per i cavalieri e le casate. L’8 di Mazzola significava scatto verticale e tiro secco. E poi venne anche il 10, del padre, quando l’Inter del dopo impero ebbe bisogno di lui nel ricambio generazionale ’73-’77. Il 4 di Bertoli voleva dire la schiacciata potente in diagonale e in parallela. Della nazionale, la terza gemma, sono stati due capi carismatici. Le vittoria all’europeo ’68 e la finale del mondiale ’70, a cui Mazzola ha partecipato, hanno rilanciato la nave azzurra dopo anni di anonimato proiettandola nel futuro. Il successo ai Giochi del Mediterrano e il 3° posto alle olimpiadi di Los Angeles del 1984 che Bertoli contribuì ad ottenere, servirono per rinverdire il Gabbiano d’Argento del 1978 e aprire, cinque anni dopo, le porte della scalata internazionale alla nazionale di Velasco.
Poche sono state le sconfitte e sempre o quasi sono stati i russi allora sovietici a imporgliele, con l’aggiunta di un vento scozzese nella Lisbona del ’67. Yashin, il Cska Mosca e il Celtic Glasgow pur vincendo quelle partite hanno però alimentato il mito di questi due grandi campioni che sapevano battersi da guerrieri. O da moschettieri. Si hanno fatto anche i dirigenti, Sandro Mazzola nell’Inter, nel Genoa e nel Torino. Mentre Franco Bertoli è stato direttore generale di Modena e presidente del Coni della città emiliana, ma entrambi sono stati sul campo dei moschettieri del re. Tutti per uno e uno per tutti assieme ai compagni di mille battaglie.