Matteo Quaglini
Il teatro di Wembley, il pubblico magnifico e romantico del calcio anni ’60, le due nazioni rivali di sempre Inghilterra e Germania. Se pensiamo per un attimo e a cinquantaquattro anni di distanza dagli eventi a quei giorni, ci accorgiamo che questi furono i tre poster dell’epoca “Beet” del football internazionale di metà anni ’60.
Il mondiale inglese del 1966 lasciò ai posteri, nella storiografia del calcio, la finale più controversa e polemica di sempre. L’ottavo campionato del mondo si risolse a favore dell’Inghilterra con il colpo di scena del più famoso gol non gol del football. A Londra nella città della magia e dei reali d’Inghilterra, dell’ex ma poi non tanto impero britannico, andò in scena uno scontro epico tra due scuole calcistiche diverse e al tempo stesso vicine. Da una parte l’Inghilterra di Charlton e Moore, dall’altra la Germania mai doma e magnifica nella sua classe essenziale e feroce incarnata da Beckenbauer, Overath, Seeler e Haller. Uno scontro storico – calcistico che ribadì il fascino oscuro e suggestivo dell’idea di Jules Rimet.
L’Inghilterra si era preparata da tre anni a giocare il mondiale casalingo, da quando cioè Alf Ramsey aveva dichiarato ai giornalisti quanto segue: “Signori, io non ho molto da dirvi, se non anticiparvi che l’Inghilterra vincerà la Coppa del mondo. E adesso lasciatemi lavorare”. Un profezia che poteva sapere di arroganza, come quei sapori forti e troppo ricercati di piatti d’alta cucina fatti da chef altezzosi che cercano il palato fino dei critici più che il gusto dei loro ospiti, e che invece celava la convinzione di farcela, di vincere per la prima volta il mondiale, di trionfare nella manifestazione che più di tutte sintetizzava il gioco che loro, gli inglesi, avevano inventato.
L’allenatore, che poi sarebbe stato incoronato “Sir”, il baronetto più apprezzato d’Inghilterra nell’anno 1966, era convinto della sua rivoluzione tecnica e quelle parole ne erano il manifesto più concreto: via il WM, il modulo egemone nel calcio anni ’50 ma ormai superato dalla difesa in linea con l’aggiunta del libero, dall’ala tornante, dal mediano di rottura, dalla seconda punta larga sulla sinistra. La specializzazione dei ruoli che si stava sviluppando e che caratterizzava il grande calcio latino di allora, arrivò fin sulle rive delle coste britanniche e più precisamente lì al Sud, nella Londra ottimista e edonista dello Swinging London. L’Inghilterra della palla lunga, dell’intervento rude, del gioco solo acrobatico, aveva lasciato spazio ad una squadra capace di giocare la palla a terra con Bobby Charlton e di velocizzare il gioco verticale con Geoff Hurst e Peters, di uscire palla al piede dalla difesa con l’altro grande “Bobby” della squadra, Moore.
Con questo impianto, per loro innovativo, gli inglesi giocarono una Coppa del mondo tecnicamente pulita ed efficace. In cinque partite, quattro vittorie e un pareggio con un solo gol subito in semifinale su rigore da Eusebio anche lui, nonostante fosse la grande pantera nera del calcio continentale, inoffensivo al cospetto del quintetto difensivo inglese. Una squadra equilibrata in ogni settore del campo con i reparti collegati, l’uno all’altro, da giocatori chiave: Nobby Stiles il duro della brigata che dava protezione alla difesa tanto quanto Gordon Banks dava con le sue parate acrobatiche, sicurezza alla porta. Bobby Charlton poi collegava tutto il gioco nella sua posizione di centravanti-regista di scuola ungherese. E ancora Hurst che con il suo gioco in allungo da giocatore più avanzato nello schieramento valorizzava la scelta di tenere le ali alte.
Coordinati, precisi, compatti e pronti alla “battaglia” sì perché quando la partita vale una vita sportiva, i sudditi di sua maestà, parlano di battle non di match. E’ nei loro miti la spiegazione di tale principio: nel coraggio di Re Artù, nella politica dura di Oliver Cromwell, nell’ardimento di Hontario Nelson, nella diplomazia lungimirante di Wiston Churchill, nei versi di William Shakespeare.
Nell’opera La Tempesta lo scrittore si chiede perché: “O fortuna, mia cara sposa, hai portato qui su queste rive i miei nemici?” la stessa domanda che l’Inghilterra in maglia rossa si fece il 30 luglio 1966, giorno della finale, nel vedere che quei nemici avevano i volti di Beckenbauer, Haller e Overath e la bandiera di un grande avversario storico.
La Germania è il rivale per antonomasia del Novecento inglese e arriva a Londra con la ferma convinzione di vincere. I suoi giovani fuoriclasse hanno giocato un mondiale superbo, fare gol all’Inghilterra che non ne prende è un sogno possibile.
Davanti a 96.924 spettatori sfilano i ventidue della finale preceduti dallo svizzero Dienst che, controvertendo per una volta la storia, non sarà neutrale. Gli inglesi giocano con Banks, Cohen, Wilson, Stiles, J. Charlton, Moore, Ball, Hurst, B.Charlton, Hunt, Peters. Di là nella metà campo dei bianchi di Baviera e Turingia ci sono Tilkowski, Hottges, Schnellinger, Beckenbauer, Schulz, Weber, Haller, Seeler, Held, Overath, Emmerich. Tutto è pronto per una finale da giallo inglese anni ’30.
All’inizio gioca meglio la Germania e Haller, il tedesco brasiliano come lo definiva Sandro Mazzola, porta in vantaggio la Mannschaft, 1-0 e il titolo mondiale ha cominciato a volare verso Monaco di Baviera. Ma l’Inghilterra sa reagire e inizia a giocare, 66’ minuti dopo la rete del biondo di Amburgo le giubbe rosse sono avanti per 2-1. Geoff Hurst, scuola West Ham, ha colpito col suo sinistro preciso e poi è stato Peters – ala dal bel passo ma poca grinta – a segnare il punto del sorpasso. Sembra fatta, ma non sarebbero tedeschi se si arrendessero.
All’ultimo minuto Weber, un difensore, in mischia pareggia, 2-2 e la finale è di nuovo un giallo alla Agatha Christie. Nel primo supplementare accade il fatto che rompe l’equilibrio e fa pendere la bilancia in favore della Perfida Albione. Palla in area tedesca, Hurst controlla e in mezza spaccata si gira tirando dal basso verso l’alto, Tilkowski appare subito tagliato fuori dalla parata. Ora è la traiettoria della palla che conta. Batte sulla traversa e scende in picchiata sulla linea. La domanda è una sola, gol o non gol? Se lo chiedono in centomila, più ventidue, più l’arbitro, più un guardialinee l’azero Tofik Bahramov. In quel momento fu come se per un attimo in tutti questi occhi si incarnarono quelli di Poirot, Ellery Queen, Miss Murple i più grandi investigatori del giallo, chiamati a dirimere il “delitto” mondiale più complesso di sempre.
La Germania protesta mentre l’Inghilterra chiede il gol. Per Tofik Bahramov non ci sono dubbi è gol. La battaglia di Inghilterra-Germania è decisa. Troppo stanchi i tedeschi e per una volta demoralizzati per recuperare. Quando Hurst, a un minuto dalla fine segna in contropiede il 4-2 l’Inghilterra ha la certezza di essere campione del mondo. Canti, balli e l’inno inglese, God Save The Queen, che riecheggia per Wembley, teatro della “Tempesta” shakespiriana per eccellenza.
La finale più controversa aveva vissuto il suo cerchio storico, il giallo l’ha pervasa fino a oggi quando con l’Hawk-Eye si è dimostrata la validità del gol di Hurst. L’Inghilterra per la prima e unica volta campione del mondo troverà la sua nemesi nel 2010, quando Lampard nel mondiale Sudafriano segnerà ai tedeschi un gol validissimo, trenta centimetri oltre la linea, non ravvisato dall’arbitro. L’universo dà, l’universo toglie per riequilibrare i “gialli” di un tempo. E anche gli history match, se possibile.