di Daniele Craviotto
Dopo due successi consecutivi, l’amaro calice della sconfitta torna a essere servito in casa doriana. La Sampdoria arresta la sua corsa all’Artemio Franchi dinanzi a un avversario più strutturato e preparato. I blucerchiati non sono sembrati spesso dentro la partita è il vantaggio ottenuto si è presto tramutato in una mera illusione. I genovesi, rispetto ai toscani, faranno quasi certamente un altro campionato. Si potrebbe arrivare persino a dire battuta d’arresto preventivabile. Invece l’incontro andato in scena ieri merita un’analisi ben più approfondita. Il motivo sta nel fatto che, ancora una volta, sono emersi tutti i limiti di una squadra che senza la proverbiale «acqua alla gola» escono fuori senza freni.
Il primo è quello di una sorta di sindrome di Stendhal. Infatti, come contro l’Atalanta a Marassi, il Doria appena passa in vantaggio contro squadre nettamente più forti, si meraviglia di cotanta bellezza. Risultato? Si paralizza, smette di fare quello che ha preparato lasciando campo e rimonta all’avversario. Tutto l’opposto di quanto fatto con il Verona dove lo schiaffo preso ha suscitato una reazione alla Rocky Balboa.
Il secondo problema si ha nel possibile poca conoscenza geometrica dei ragazzi di D’Aversa. È inspiegabile come, dopo 15 partite, non abbiano ancora compreso cosa sia e come funzioni una diagonale. Ma anche la chiusura degli spazi con marcature strette lascia a desiderare, quasi a non aver compreso lo spazio interno al perimetro. Le reti subite sono la sagra dell’orrore per ogni preparatore difensivo che si rispetti. Uomo alle spalle a cui viene data la schiena, lasciare entrare serenamente l’avversario in area di rigore (anche su questo un ripassino del concetto scolastico non farebbe male) e infine tutti a guardare la palla. Non è chiaro se il problema venga dal portiere (che ha raggio e campo visivi più ampio dei compagni) che non riesce a coordinare e ordinare le forze di difesa o se i difensori genovesi non riescano a seguire l’uomo al contempo dell’azione. La cosa preoccupante è che con l’ex allenatore ci sono volute più di 40 partite per trovare i meccanismi con gli stessi uomini. Qui restano solo 23 giornate.
L’ultimo limite è una sindrome che definirei del tutto «sampdoriana». È un mix, sportivamente scrivendo, tra il senso di colpa, la sindrome di Stoccolma e l’euforia troiana di omeriana memoria. Il primo si manifesta quando la Samp passa in vantaggio. Si sente quasi in obbligo di concedere subito una possibilità all’avversario per non fargli torto. In psicologia «sentirsi in colpa spesso si associa al concetto di punizione». Ecco in questo campo del sapere e in altre materie umanistiche, il Baciccia sembra molto più ferrato. Subito il gol, invece, il Doria va in piena sindrome di Stoccolma. Si innamora di chi l’ha punita e concede, a chi l’affronta, di ripetere questo altre volte e sovente con le medesime modalità. Infine come i Troiani contro gli Achei, non appena le cose si mettono bene, non si ragiona più sui motivi che hanno causato quella vantaggiosa situazione. Si pensa che il più sia fatto e anzi bisogna chiudere in fretta guerra o partita per pensare al domani. Questo fa arretrare il baricentro per andare in ripartenza. L’unico effetto ottenuto è quello di portarsi il personale «cavallo di Troia», rappresentato dalla scarsa conoscenza geometrica difensiva, presso e poi dentro le proprie mura. Gli attaccanti avversari pensano al resto.
Il nuovo obiettivo di D’Aversa e del suo staff sarà quello di curare la Sampdoria da questa radicata sindrome o alla fine, come a Troia, il conto sportivo presentato potrebbe essere altrettanto salato.