Luigi Pellicone e Gianluca Guarnieri
Roma – Porto era la Partita. Attesa da otto mesi. E la Roma la affronta così carica, troppo carica, da andare fuori giri alla prima avversità. Champions significa anche questo: gestire emozioni, tensione, paure. Il gol subito a freddo devasta la Roma, che si agita, perde il bandolo della matassa e non lo ritrova più. Squadra timorosa, bloccata: si guarda allo specchio e perde, pian piano tutte le sicurezze, proprio quando sarebbe chiamata a mostrare le proprie certezze. Aldilà delle scelte tecniche e dell’arbitraggio, il “focus” è da spostarsi altrove…
Non è un caso che i giallorossi inizino in undici e chiudono in nove. Quelle entrate a gamba tesa, la quintessenza di una sorta di “ansia da prestazione”. La voglia di strafare, più che di fare. Cosa faceva De Rossi, da centrale, nella meta campo avversaria a 60 metri dalla sua posizione? E perchè interviene in quel modo a 70 metri dalla zona che deve difendere? Discorso a parte per Emerson Palmieri: inadeguato. Causa due rigori (uno non visto) all’andata, quasi ne procura uno con l’Udinese, entra perchè la Roma è in dieci e la lascia in nove con un intervento ancor peggiore di quello di De Rossi e sconsiderato il doppio. Non a caso, neanche protesta. É perfettamente consapevole del disastro. L’arrembaggio finale, è figlio anch’esso dell’emotività. Paradossalmente, quando non ha più niente da perdere, la Roma inizia a giocare come dovrebbe. In sintesi: aldilà delle scelte tecniche, dell’arbitraggio, il vero campanello d’allamre suona nella testa di una squadra scopertasi improvvisamente fragile. Anche a livello di prestigio e mercato: i movimenti per forza di cose, dovranno ridimensionarsi, e c’è il rischio che qualcuno lasci la Capitale, attratto da quella Champions che improvvisamente non c’è più.