Antonio e Carlo principi di Inghilterra e Germania

Posted By on Mag 25, 2017 | 0 comments


Matteo Quaglini

Adesso che hanno vinto in Germania come in Inghilterra sono diventati dei principi.  Antonio Conte e Carlo Ancelotti entrambi già re in Italia alla guida di Juventus e Milan e oggi simboli della vittoria di Londra e di Monaco, le città dove hanno trionfato con Chelsea e Bayern Monaco.

Le loro vittorie sono state diverse e uguali. Diverse perché diversi sono gli stili dei due capitani: autoritario, maniacale, aggressivo al limite dell’iracondo per Conte. Riflessivo, conciliante, flemmatico in apparenza ma in grado di osservare il mondo attorno a lui, per Ancelotti.

D’altronde ognuno guida la nave della conquista con i suoi tratti, le sue idee, le sue forze e debolezze, quello che conta e fa la differenza è la capacità di saperle trasmettere nei giocatori, assaltatori dei fortini avversari.

Qui nell’empatia dalla radice diversa sta la similitudine tra Conte e Ancelotti e la spiegazione delle loro vittorie. Entrambi hanno saputo superare le difficoltà, che sempre si presentano quando anche per un attimo si toglie lo sguardo dal traguardo. Per Conte è successo quando, dopo le prime vittorie, ha pensato che bastasse il suo magnetismo ossessivo per risollevare la squadra del decimo posto. Due sconfitte con Liverpool e Arsenal, cinque gol sul groppone e l’Italia di vecchie certezze che sembrava sempre più lontana. Lì lo scatto e la capacità di affrontare il problema: ribaltamento completo della squadra con la difesa a tre e mezzo, Alonso a tutta fascia e grande forza difensiva.

Il Chelsea che conosce la mentalità italiana dal 1996 ha accettato i canoni forse un po’ grigi dell’idea, ben conscio però che delle volte il riscatto passa anche dalla pragmatica e la vittoria arriva sapendo soffrire quasi ogni minuto.

Il grande Carlo ha dovuto superare un macigno, l’idea cioè che dovesse a qualsiasi costo cancellare tre anni di globalizzazione calcistica tra il calcio spagnolo del possesso e il gioco verticale dei tedeschi. Il campione dei campionati doveva centrare il traguardo dell’abbandono del dogma ridando al Bayern la sua anima storica, quella della tenacia data dall’unione dei caratteri e delle personalità.

Ancelotti conquistando il quarto titolo in cinque nazioni ce l’ha fatta e ha visto a Madrid, mentre l’arbitro e Ronaldo gli portavano via la finale dei campioni, realizzato il suo obiettivo. Mentre Vidal e compagni lottavano con la forza del Bayern degli anni’70, lui, Carletto, sorrideva nell’arrabbiatura perché già intravedeva la squadra dell’anno che verrà, la squadra da finale.

Una stagione all’insegna degli allenatori italiani tra campioni e finalisti della coppa più grande a sottolineare come qualcosa si muova nel sottobosco del calcio italiano ancora ingrigito da un livello tecnico basso, ma al tempo stesso, capace di raccogliere la sua storia e portare nei campionati internazionali l’idea della gestione alta dei giocatori, la capacità di tirare fuori il meglio. Più che il gioco, gli uomini con i loro tratti come nella nostra storia.

Una storia, questa degli allenatori italiani all’estero, in cui abbiamo cominciato a essere protagonisti dal 1994 quando il mondo cambiava passando dalle ideologie al globale, e Trapattoni andava a Monaco di Baviera seguito da Capello che due anni dopo sarebbe diventato Don Fabio sotto la bandiera Blanca. Da lì altri campioni sono divenuti Mancini, Spalletti e Ranieri capace della vittoria più grande fra tutte, nella Leicester che già aveva in se il genio della vittoria dei cittadini Lineker e Shilton.

Poco a poco tra le pieghe della cronaca abbiamo migliorato la nostra storia. Dal 1949 quando il capostipite Peppino Meazza ci portò a Istanbul sponda Besiktas al 1980 furono solo in otto ed eravamo timidi, poi dal 1994 a oggi in quarant’otto hanno navigato in mari “altri”, oggi in questa stagione erano diciannove i nostri viaggiatori, sei in Inghilterra, che tra alterne fortune hanno allenato più che da pirati da navigatori e, soprattutto, da sognatori di successi.

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