Giorgio Dusi
Un po’ per abitudine, un po’ per cattiveria gratuita, siamo sempre stati abituati a parlare delle sconfitte dell’Arsenal, soprattutto in ambito Europeo. Anche perché discretamente memorabili, in senso non positivo. Tra il Monaco e il Bayern, passando per il Barcellona, i Gunners sono stati eliminati per sette anni consecutivi agli ottavi di Champions, alcune volte da favoriti e altre subendo gol a raffica.
Al Wanda Metropolitano di eliminazione ne è arrivata un’altra, nella semifinale di ritorno di Europa League, costata la finale di Lione e il sogno di Wenger di chiudere la propria carriera con un trofeo internazionale. Ma è stata una sconfitta diversa. Perché analizzando come è arrivata, è forse più corretto parlare di vittoria dell’Atlético prima che della solita sconfitta dell’Arsenal. Dopo 180 minuti di lotta, mettendo sulla bilancia i meriti dei Colchoneros e demeriti dei Gunners, a prevalere sono quasi indubbiamente i primi.
La differenza di esperienza tra le due squadre si è quasi azzerata nel doppio scontro, come era lecito attendersi. Si sono affrontate due grandi del calcio europeo, seppur diverse, ma con un passato e un presente piuttosto distanti. L’Atlético disputerà infatti la sua quinta finale europea in nove anni. E negli ultimi nove anni, l’Arsenal è uscito sette volte agli ottavi di Champions, ma nei 180 minuti della semifinale ha tenuto testa agli spagnoli. Anche grazie all’ottima prestazione difensiva del match di ritorno: senza i due provvidenziali salvataggi di Chambers – a cui se ne aggiunge uno di Xhaka, il migliore in campo per l’Arsenal – il match di ritorno al Wanda Metropolitano si sarebbe chiuso molto prima. Anche perché la sensazione era che i Rojiblancos non potessero prendere gol. Non c’era modo di sfondare la linea di 6 uomini predisposta da Simeone e Burgos davanti alla porta, con l’area riempita e un Godín che ha effettuato più salvataggi di un portiere. Si può parlare di clinic difensivo di uno dei migliori reparti arretrati del mondo.
Il resto lo ha fatto la vera differenza tra le due partite di andata e ritorno: Diego Costa. In panchina all’Emirates, in campo e decisivo al Wanda Metropolitano. Con lui è tutt’altro Atlético. Cambia letteralmente il volto alla squadra, la allunga con i suoi scatti in profondità, porta avanti palla, segna, crea. E la coppia con Griezmann inizia a funzionare, nonostante abbia forse mostrato soltanto una piccola parte del proprio potenziale reale. Costa viene pur sempre da sei mesi di stop forzato.
Ha rivoluto il suo popolo, ora lo sta riconquistando a suon di gol. E di giocate, mettendo a ferro e fuoco una difesa ben organizzata e messa in campo da Wenger – anche senza Koscielny, subito infortunato – ma non sufficiente fisica da poterlo limitare.
Lo stesso vale, al contrario, per l’attacco: la forza di volontà e la determinazione non sono bastate all’Arsenal per sfondare il muro Colchonero davanti a Oblak.
Sono mancati i dettagli, più che i concetti. Quei piccoli dettagli che fanno la differenza tra una squadra da sesto posto in classifica nel proprio campionato e una da cinque finali europee in nove anni. Forse è questo il più grande rimpianto dell’Arsenal, più dell’1-1 dell’andata (con un 1-0 sarebbe cambiato poco) e più della panchina iniziale per Mkhitaryan del ritorno.
La – triste – certezza è che Wenger si ferma a 250 partite internazionali con i Gunners, senza poter fare 251. Arrendendosi, però, a una squadra semplicemente più forte e più brava, che non prende gol in casa dal 20 gennaio e ha centrato 20 clean sheet su 27 gare casalinghe. I numeri non mentono.