(di Gianluca Guarnieri) L’uomo con la maglia numero 10 prese la palla e si avvicinò al dischetto. Apparentemente sembrava estraneo a tutto ciò che lo circondava e in modo particolare allo strano clown che si parava di fronte, un baffuto saltellante Bruce Grobelaar. L’uomo con il numero 10 e la fascia da Capitano lo ignorò totalmente e si concentrò esclusivamente sulla sua missione, ovvero quella di trasformare il suo penalty. L’emozione era forte, fortissima ma quel ragazzo non la fece trasparire e dal suo piede destro scagliò un’autentica folgore che andò ad insaccarsi imparabilmente nella rete sotto la Curva Sud. Sappiamo tutti come andò a finire, in quella triste serata, serata che cambiò senza dubbio la storia della A.S. Roma, e sappiamo chi era quel numero 10; quel 10 era il Capitano della Roma e se fosse stato possibile avrebbe calciato lui tutti i 5 calci di rigore, per la tranquillità del “maestro” svedese in panchina. Quel numero 10 era Agostino Di Bartolomei.
Strana la storia della A.S. Roma, squadra legata al suo popolo in maniera viscerale e religiosa, andando ben oltre il semplice legame “Tifoso-Club”, quasi fosse un culto di forza dogmatica, e con uomini simbolo e bandiera così forti da creare invidia da parte di chi non ha nulla da contrapporre. Agostino Di Bartolomei è uno di quelli; un capitano con la “C” maiuscola, un leader silenzioso, lontano anni luce dalla figura attuale del calciatore, sempre più rockstar e sempre meno atleta. Agostino Di Bartolomei, uomo profondo e di letture eleganti, un uomo che sapeva discettare di politica e filosofia, di Arte e cultura senza battere ciglio, un uomo senza le banalità del mondo del calcio, ricettacolo di vanità ed isterismi.
“Ago” come era chiamato da tutti era un centrocampista classico, di grande visione di gioco ed eleganza, dotato di una rara potenza di tiro e di una precisione millimetrica, che nel calcio di quei lontani anni ’70 balzò immediatamente allo sguardo e all’attenzione di molti tecnici. Chi ne fece suo esecutore in campo fu Nils Liedholm, che comprese immediatamente la forza di questo taciturno ragazzo di Tor Marancia, quartiere popolare a sud di Roma, dandogli le chiavi del suo centrocampo al posto del “traditore” Cordova, passato per dispetto alla Lazio .” Dibba” lo ripagò alla grande dimostrandosi più maturo dei suoi 20 anni o poco più, segnando goal a ripetizione (per un centrocampista) in una squadra giallorossa impelagata nella lotta per non retrocedere. Sembravano ancora tempi cupi, ma all’indomani di una salvezza disperata in un Roma-Atalanta per cuori forti la società passo da Gaetano Anzalone a Dino Viola, e il destino fino ad allora scarso di soddisfazioni mutò. Torno il “Barone” da Milano dove era andato a vincere lo scudetto della “Stella” e la Roma cominciò ad ingranare e a vincere con un nuovo modo di stare in campo, ovvero a “zona”, vera e propria rivoluzione nell’asfittico panorama del calcio italiano. “Ago” venne affiancato da tanti campioni e quel centrocampo divenne stellare con i vari Falcao, Ancelotti, Bruno Conti come tante gemme in uno scrigno. Vennero tanti trionfi, uno scudetto meraviglioso e qualche dolore, e quello più grande in quel 30 maggio 1984 che segnò la vita di molti di noi.
Sono passati più di 35 anni da quel giorno di maggio e 25 dallo stesso giorno del mese, dove il capitano di Tor Marancia ci salutò definitivamente, in doloroso mattino assolato, che piegò di dolore il suo popolo che tanto lo aveva amato ed apprezzato. Quel popolo che continua tutt’oggi ad amarlo ed a tramandarne le proprie gesta, con bandiere a sua immagine sventolanti in quella Curva Sud da lui tanto amata e ricordata nel suo biglietto, commiato definitivo dalla sua umana esistenza. A lui si sono ispirati cineasti, si sono prodotti documentari e libri. In fin dei conti lui è sempre stato “l’uomo in più” e artisti come Francesco De Gregori lo hanno usato come modello per uno dei suoi capolavori indiscussi, nella struggente “Leva calcistica della classe ’68”. Ago ci manca, come mancano i suoi silenzi, la sua mancanza di banalità che si troverebbe male nell’attuale mondo del calcio, sempre più privo di umanità e ricco di imbarazzanti atteggiamenti. Lui di atteggiamenti ne aveva ben altri, come quello di rivolgersi al direttore di gara con le braccia riposte dietro la schiena, segno di rispetto e di educazione, come solo i grandi Capitani di un tempo che fu. Per ricordarlo ci viene in mente una canzone, un vero capolavoro: “Wish you were Here” dei Pink Floyd. Una struggente ballata acustica dedicata a Syd Barrett, geniale membro del gruppo inglese, persosi nei sentieri impervi della sua anima. Rappresenta la sofferenza per il distacco e par la separazione, per l’assenza di una presenza importante nella nostra vita. Sicuramente a lui, sarebbe piaciuta.
Wish You were Here, Capitan Agostino Di Bartolomei.