Razzismo e violenza: no, non fanno parte del gioco

Posted By on Dic 28, 2018 | 0 comments


Gandomenico Tiseo

C’è sgomento, amarezza e tristezza. Siamo spettatori di un film già visto. Dopo 4 anni e mezzo il calcio italiano viene associato alla morte e alla guerriglia urbana. La tragica fine di Daniele Belardinelli, classe 1979, morto investito da un Suv di tifosi del Napoli con aspetti ancora da chiarire, è purtroppo solo la punta dell’iceberg di una deriva violenta che ha nel “Pallone” la sua cassa di risonanza perché gli stessi protagonisti degli incidenti vogliono che sia così.

Cosa vuol dire essere ultras? Confronto fisico con la fazione avversa, il rispetto di un codice chiaro di identificazione condizionato dall’insana adrenalina del momento purché vi siano le luci della ribalta accese. Per costoro finire sui giornali e al centro dei dibattiti è sinonimo di vanto perché va bene tutto purché se ne parli. Di questo mondo faceva parte Belardinelli, uno dei capi del gruppo neofascista “Blood and Honour”, tifoso varesino e un osservato speciale per reati connessi agli eventi sportivi, con Daspo annessi.

Inter-Napoli, di fatto, è passata completamente in secondo piano per quanto avvenuto fuori dal “Giuseppe Meazza” e, durante, coi cori beceri a sfondo razzista contro Kalidou Koulibaly. Il gioco più amato dagli italiani macchiato dagli atti di facinorosi che per l’ennesima volta nella nostra storia portano alla solita affermazione: non si può morire per andare a vedere una partita di calcio. Purtroppo è accaduto e se non si prenderanno provvedimenti accadrà nuovamente perché tutto questo non fa parte del gioco.

Da dove partire? Da una cultura sportiva diversa. La si cita sempre tanto ma poco si fa attivamente. Non la si crea dal nulla ma attraverso una formazione specifica nelle strutture preposte, spesso inesistenti. I modelli positivi vengono dalle famiglie e dalla scuola ma se questi aspetti latitano nei primi due macro-insiemi la deriva è quella della strada, dell’affermazione del più forte e dell’homo homini lupus nello stato di natura primordiale.

Mancanze delle famiglie e della scuola che poi si ripercuotono in una società, quella italiana, divisa già di suo, in una storia di rivalità e campanilismi. Spesso ci si è nascosti dietro il termine sfottò per giustificare qualcosa di più profondo perché la sfera che rotola sul rettangolo verde non è più al centro dell’attenzione. Lo è invece il supporter rivale, il nemico contro cui mi debbo scontrare per impormi come dominante ed essere membro accettato del gruppo o del branco.

I buu razzisti al calciatore del Napoli sono sinonimo di disprezzo non per antipatia ma perché facente parte di un modo di intendere diverso, non aggregante, ristretto ai propri dogmi e volto ad imporli con la forza. I social hanno reso questi messaggi ancor più aspri perché le parole, senza filtro, si sono tramutate in picconate.

E cosa fare ora? Fermarsi non serve a nulla ma agire come elemento di rottura tra società ed ultras avrebbe un senso. Far valere un principio di giustizia soggettiva in cui siano i diretti interessati a pagare per le proprie colpe. Nello stesso tempo anche i club devono fare la loro parte prendendo le distanze fattivamente da curve spesso invischiate in affari sporchi con la collaborazione delle istituzioni senza scendere invece a patti.

Chiudere quelle porzioni di stadio e vietare le trasferte, come è stato proposto dal Questore Marcello Cardona, è una maniera per tamponare ma non la soluzione, trattandosi di un espediente che già c’è stato in passato e non ha sortito alcun effetto in prospettiva. Il potere degli ultras va affievolito con la compattezza di chi ama davvero il calcio, più forte delle divisioni sociali che costoro cavalcano a loro vantaggio.

Siamo ancora una volta davanti al bivio ma saremo davvero in grado di cambiare strada?

 

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