Velasco e Capello, gli ultimi Mohicani

Posted By on Mag 14, 2019 | 0 comments


Matteo Quaglini

Hanno smesso di allenare a un anno di distanza. Uno ha concluso nell’Aprile del 2018 la sua carriera da vincente duro e spigoloso in Cina, l’altro ha dato pochi giorni fa l’addio alla panchina di Modena dopo quarantaquattro anni di successi e massime filosofiche. Uno si chiama Fabio Capello ed è il bisiaco, l’uomo che vive tra due fiumi. L’altro ha un nome che evoca il condottiero per antonomasia di Roma antica Julio e di cognome fa Velasco, un argentino che ha girato il mondo partendo da La Plata.

Due carriere simili e diverse. Simili perché entrambi hanno vinto tanto se non quasi tutto, diverse perché diversi sono i personaggi, gli sport in cui hanno brillato, i giocatori che hanno allenato, le idee che hanno avuto. Una cosa però gli accomuna indissolubilmente, la vittoria.

La vittoria si, un totem indiano che hanno corteggiato e poi sposato appieno ben sapendo però che nello sport si può perdere perché ci può essere qualcuno più bravo di te. Semplicemente. E in questa semplicità di concetto c’è stata tutta la loro carriera fatta di idee chiare, obiettivi concreti e raggiungibili, di determinazione e forza mentale.

Fabio Capello viene da lontano, terre friulane. Rappresenta anche lui la sua gente tosta e determinata. La serietà sul lavoro unita alla disciplina è stata il suo biglietto da visita con cui si è presentato per camminare fino alla vittoria tanto a Milano come a Madrid, a Roma come a Londra, fino ad arrivare a Mosca e poi a Pechino novello Marco Polo. Come Capello anche Velasco ha fatto della sua grande carriera, un viaggio. Ed è stata un’avventura emozionante.

La sua storia parte da Buenos Aires negli anni del gotico e cattivissimo Videla. Julio è uno studente di filosofia una materia spinosa per chi ha la voglia di studiarla perché il paese è in mano a una giunta militare tirannica che diffonde il terrore costruendolo sulla depredazione dell’anima di tanti coraggiosi oppositori, i desaparecidos. E’ il tempo dell’oscurantismo sull’Argentina, la pallavolo diventa un rifugio. Un mondo dove imparare e vivere un’esperienza d’aggregazione. Inizia a giocare, ma l’indole è quella di insegnare agli altri il suo pensiero. Comincia nell’ Estudiantes De La Plata con i bambini piccoli, passa alle giovanili, poi diventa capo allenatore del Ferro Carril Oeste, e prima dell’avventura italiana vice allenatore dell’Argentina ai mondiali del 1982. Insegna e vince costruendosi allenamento dopo allenamento la sua filosofia da allenatore, marchio distintivo di un coach per dirla con Dan Peterson.

Gli esordi di Fabio Capello sono stati simili a quelli di Velasco. La differenza iniziale di essere stato un grande giocatore in serie A e nazionale, ha trovato poi la sua similitudine nei primi passi da allenatore. Anche Capello cominciò con i ragazzi del Milan proprio nell’anno in cui Julio era assistente dell’Argentina, l’anno domini del mondiale di Bearzot e dei suoi campioni del mondo. Poi il cammino verso la primavera quindi l’approdo alla prima squadra del Milan come secondo di Nils Liedholm, i quattro anni da manager della polisportiva Mediolanum voluta e poi smantellata da sua emittenza, anni in cui ha conosciuto da vicino la pallavolo studiando Zorzi, Lucchetta, Bertoli e il vate del sogno americano pallavolistico, Doug Beal.

Anni che fanno il palio con le esperienze, non troppo fortunate, nelle dirigenze di Inter e Lazio dell’uomo di La Plata. Un viaggio, quello del bisiaco che stese l’Inghilterra a Wembley nel ’73, fino a sostituire Sacchi e l’ideologia del dominio del gioco, per diventare il capo calcistico più vincente, in termini di campionato, di tutta la storia del Milan. Quattro scudetti, come Velasco a Modena nel grande quadriennio 86-89.

Erano ragazzi quando hanno cominciato, poi sono diventati i vincenti per antonomasia. E dopo il viaggio per arrivare in cima alla vetta hanno vissuto altre storie di sport parallele. Entrambi hanno allenato giovanissimi e ancora un po’ acerbi due grandi club, ma con grande intelligenza, il Milan imperiale e la Panini Modena la squadra che trasuda di pallavolo. Entrambi hanno vinto le incertezze di pubblico e giornalisti. Entrambi hanno allenato in Spagna, terra dove Capello divenne Don l’epipeto che si conferisce ai grandi del regno. Tutti e due sono stati dei selezionatori di nazionali, ma qui Velasco ha camminato verso la storia e poi la leggenda, mentre Don Fabio pur

allenando una grande generazione di giocatori inglesi da Lampard a Gerrad a Rooney non è riuscito a ricreare una “Generazione di Fenomeni”. Quelli del volley dell’85 ce l’hanno fatta invece perché erano, per dirla con Lucchetta, dei visionari che insieme ad un altro visionario dalla parlata argentina hanno ribaltato la pallavolo italiana portandola a superare il grande orso russo, dominatore del gioco per decenni.

In Russia, invece, Capello non ha avuto successo anche se molti rubli l’hanno ripagato di un mondiale anonimo. L’oriente, o meglio, la porta di confine tra due mondi ha premiato di più Velasco che nell’allenare l’Iran dell’estroverso palleggiatore Marouf e nel vincere la coppa d’Asia, ha trovato anche un’avventura culturale ricca e affascinante. Un po’ come i quadri che tanto ama e studia Fabio Capello.

Grandi nelle vittorie e grandi nelle poche sconfitte. I ritorni non hanno fatto per loro. Quando Capello tornò al Milan nell’estate del 1997 era campione di Spagna e dodici mesi dopo fu esonerato dalla Lazio e da Berlusconi in una serata romana di coppa e di maggio. L’argentino dopo la finale scudetto raggiunta con Piacenza tornò, nel 2005, nella sua Modena dove pur con tanti campioni non costruì una nuova squadra vincente. Il re è nudo si disse, mentre il grande rivale di battaglie giovanili Montali trionfava all’europeo di Roma con la nazionale. Uno dei principi di Velasco è però sempre stato quello di non mollare mai, così è tornato grande a insegnare pallavolo in giro per il mondo.

Come Capello che seppe tornare sul trono della vittoria diventando Fabio Massimo l’imperator capace di riportare la Roma alla vittoria del campionato dopo i successi di due generali “barbari”cioè forestieri come Schaffer e Liedholm. Fu il suo capolavoro, una sintesi perfetta della sua filosofia: determinazione massima, concentrazione su un solo obiettivo, praticità, capacità di gestire momenti e personalità ingombranti, forza mentale, scelte impopolari ma giuste.

Il cambio di Totti a Torino con la Juventus, gli ingressi solo nel secondo tempo di Montella, la capacità di ascoltare Batistuta e di portare in panchina campioni ne esaltarono la capacità di gestione, sintesi perfetta della conoscenza del gioco.

Julio Velasco come allenatore è stato diverso. Comunicativo e analitico, decisionista e caudillo come quando mandò tutta la squadra in conferenza stampa a spiegare i perché della sconfitta per 3-0 con la Cina. Autoritario, ma soprattutto autorevole. E questo è il suo lascito più importante, la sua filosofia aperta al miglioramento. L’idea di non mollare mai, di essere duri senza isterismi macisti, dello studio e della competenza, il combattere la cultura degli alibi, l’importanza di avere un metodo, il valore del gioco di squadra senza la retorica della cattiva applicazione dell’idea dei moschettiri di Dumas, il famoso tutti per uno uno per tutti.

Due vincenti diversi eppure grandi perché capaci di trasmettere un’idea. Uguali nelle loro vittorie più belle e più grandi. L’Europeo del’89 vinto in Svezia dalla nazionale di pallavolo e lo scudetto da imbattuti del primo Milan capelliano dissero che si poteva andare oltre l’ostacolo, lottando sempre per raggiungere il traguardo che era davanti. Il mondiale brasiliano del ’90 e la coppa dei campioni di Atena del ’94 sancirono un concetto: quello del niente è impossibile. Le due vittorie più belle ottenute contro i rivali storici di pensiero e gioco, Cuba e il Barcellona. Quando il tuo nemico è grande, allora anche la tua vittoria lo è diceva Toro Seduto.

Julio Velasco e Fabio Capello sono stati grandi nei successi, nella mentalità, nell’insegnamento dove uno a insegnato a giocare e l’altro a vincere. Ora si sono ritirati, lassù nelle montagne, a onorare le loro conquiste e a far riposare la mente dopo tante battaglie hanno lasciato ad altri, come gli ultimi dei Moicani.

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