di Anna Ditta
Ci sono partite che si vincono senza segnare nemmeno un goal. I giocatori della Koa Bosco, la squadra creata nel 2013 da padre Roberto Meduri a Rosarno, in provincia di Reggio Calabria, erano già tutti vincitori già prima di disputare il campionato di terza categoria.
Sono immigrati e rifugiati provenienti da Senegal, Costa d’Avorio e Burkina Faso, e sono riusciti ad arrivare in Italia dopo lunghi viaggi nel continente africano e nel Mediterraneo. Adesso alcuni di loro vivono nelle tende blu che la Protezione civile ha messo a disposizione tra Rosarno e San Ferdinando.
Il 3 maggio, la squadra, il cui nome è l’acronimo di “Knights of the Altar”, si è aggiudicata la vittoria del campionato, guadagnandosi la promozione in seconda categoria. La finale si è giocata a Maropati, un paesino calabrese, e ad assistere c’era anche il presidente del Senato Pietro Grasso.
Quando Padre Meduri ha avuto l’idea di formare la squadra, sperava di aiutare gli immigrati a integrarsi nella società attraverso lo sport. Dopo una giornata di lavoro nei campi di arance, giocare a calcio è un modo per consentire a questi ragazzi di divertirsi, ma anche di conoscere i giocatori delle altre squadre e socializzare.
L’integrazione degli immigrati nella zona non è semplice. Nel 2010, l’uccisione di due lavoratori africani a Rosarno ha portato il paese a due giorni di scontri e disordini, che hanno provocato 53 feriti.
La tensione tra gli stranieri e la gente del posto sembra adesso essere diminuita, ma si continuano a registrare episodi di razzismo. Sul campo, uno di questi episodi nei confronti della Koa Bosco si è trasformato in una rissa.
La storia della squadra ha attirato anche l’attenzione del Guardian, che ha dedicato alla Koa Bosco un articolo sul suo sito.
“L’Italia ha storicamente avuto difficoltà a combattere gli abusi razziali e il calcio dilettantistico non è estraneo a questi fenomeni”, ha scritto il giornalista Peter Georgiev, “Tuttavia, gli aspiranti calciatori africani hanno ricevuto anche il sostegno della popolazione locale che ha raccolto coperte e vestiti pesanti per i giocatori”. Il calcio, dopotutto, insegna a fare squadra.