Matteo Quaglini
Solo quarta l’Inghilterra. Quarta e fuori dal podio che ne avrebbe certificato la crescita tecnica e tattica. Quarta come quella forte e fantasiosa del 1990. Quarta col sogno utopico di cantare “Football is coming Home” ancora irrealizzato. Ancorata, contro la sua volontà, al suo numero storico l’Inghilterra di ieri è sembrata Macbeth quando di colpo nella sua testa riecheggiavano simbologie tanto forti da fargli capire cosa stesse accadendo prim’ancora che tutto si verificasse.
Si è sentita così l’Inghilterra, ieri contro il miglior Belgio degli ultimi trent’anni, persa e al tempo stesso capace di capire che non sarebbe arrivata terza. Come sognato e sperato. Un primo tempo anonimo, impalpabile, senza forza, su cui dire qualcosa sarebbe inutile se non che netta è stata la sensazione che gli inglesi non erano ancora pronti e maturi per salire sul podio.
Alla fine l’ha ammesso anche Soutgate, in conferenza stampa, con molta onestà e all’interno di un’analisi lucida e precisa che la squadra deve maturare e prendersi le sue esperienze prima di essere vincente. La delusione che, col passare dei minuti, cresceva nel secondo tempo in cui l’Inghilterra giocava meglio era dovuta al fatto che ancora una volta gli obiettivi erano lontani e stavano venendo meno. Vero. Ma dentro questa verità bisogna saper leggere alcuni dati che descrivono la formazione inglese a questi mondiali.
Il primo: la costruzione della squadra. Nessuna squadra, anche la più forte nella somma dei singoli giocatori, diventa una potenza in poco tempo. Firmato Niels Liedholm. Con questo aforisma del grande allenatore svedese si spiega perché l’Inghilterra, nonostante un’idea innovativa per i suoi tipi come il 3-5-2, nonostante l’applicazione già buona della palla bassa, nonostante meccanismi tattici ben sviluppati, non sia ancora una squadra completa. Manca concentrazione, in entrambe le fasi, nei momenti topici delle partite e manca ancora un gioco d’attacco fluido contro le difese schierate.
Il secondo: l’attacco. Già prima della partita di ieri il dato dei pochi gol nelle partite determinanti era ben scolpito nella pietra angolare inglese, dopo ieri si è rafforzato. Quattro (ancora una volta!) partite a eliminazione e quattro gol. Niente è a caso. Troppo pochi per vincere il mondiale, troppo pochi per essere terzi. Se si pensa che il Belgio ha saltato solo una partita nel segnare e che questo gli è costato sconfitta e finale, allora i conti tornano. Secondo gli allenatori del gioco diretto – come Simeone o Klopp – se il gol non appare tutto è inutile. Tradotto significa che puoi anche controllare il gioco attraverso la palla, ma se non segni verrà fuori il contro gioco degli avversari e tutta la costruzione cadrà. Colombia e Croazia partite in svantaggio hanno dimostrato perfettamente l’assunto.
Il terzo dato è il gioco: complessivamente l’Inghilterra ha giocato bene, molto meglio e con una chiara identità di quando si presentava con i suoi baronetti Beckham e Rooney o Lampard grandi ma lunatici. Però ha avuto pochi movimenti offensivi fluidi e puliti. Nelle ultime due partite sono mancati i triangoli tra le mezzali e Kane, pochi sono stati gli inserimenti di Lingard e Alli in semifinale, nessun servizio diretto per Kane. Qui l’Inghilterra deve crescere, tutte le grandi squadre per essere tali hanno un piano nel gioco d’attacco, che sia attacco frontale o laterale o contropiede conta poco. Quello che conta è svilupparlo con forza e non ad intermittenza.
Infine la storia degli ultimi vincenti al mondiale: l’Inghilterra deve guardare a Francia e Spagna. La Francia di oggi, alla terza finale mondiale, nacque con Platini prima (negli anni ’80) e con i campioni dell’under 21 del ’96 poi campioni del mondo e d’Europa in due anni. La Spagna del tiki-tika nacque con Cruijff e il suo Barcellona e poi ai mondiali del 2002 e del 2006 con l’idea di proporre un gioco nuovo e di impararlo a costo di non ottenere subito i risultati.
Ecco il principio finale di questi mondiali inglesi, il concetto di crescita. L’Inghilterra ha trovato il suo cammino tecnico, come appunto fecero francesi e spagnoli poi campioni del mondo, ha bisogno di tempo ed esperienze per consolidarsi, per essere consapevole, per giocare, per vincere e non solo sognarlo.
Perché per vincere bisogna prima imparare a farlo, poi sentirlo dentro la vittoria e infine essere convinti di ogni parola che si dice, di ogni gesto che si fa. Cantare “Football is coming Home” verrà da solo poi.