di Massimo Fabi
‘Nazione sportiva’ che per essere tale aveva bisogno di palestre e stadi. Come grande stratagemma di mobilitazione, incitamento all’attività fisica e affermazione internazionale del calcio italiano, si procedette alla costruzione di impianti che mettessero in luce le capacità edilizie del regime, tra spirito moderno e richiami alla Roma imperiale. Il finanziamento nelle infrastrutture portò all’inaugurazione dello Stadio Littoriale di Bologna (l’attuale Renato Dall’Ara), dello Stadio Giovanni Berta di Firenze (l’Artemio Franchi di oggi) e dell’Olimpico di Torino, allora nominato Stadio Municipale “Benito Mussolini“. Tutte aree dove si disputarono molti degli incontri del Mondiale 1934, il primo a cui parteciparono gli azzurri che conclusero la loro marcia vincente battendo 2 a 1 la Cecoslovacchia nella finale del 10 giugno, giocata allo Stadio Nazionale del PNF di Roma sotto gli occhi del Duce e di 50.000 spettatori.
E’ evidente come l’organizzazione di questa competizione fosse legata al tentativo del regime di mostrare alle altre nazioni i successi del fascismo e la capacità del paese di ospitare grandi eventi. I risultati nello sport non potevano che essere celebrati dalla stampa, segnata dalla proliferazione di riviste specializzate che si aggiungevano ai quotidiani Gazzetta e Corriere dello Sport. Sotto un rigido inquadramento che ne limitava la libertà di espressione, la carta stampata, sportiva e non, esaltava con toni trionfalistici e patriottici le gesta degli atleti italiani, accumunandole alla figura del dittatore e per mezzo delle quali si doveva contribuire all’immagine nel mondo dell’Italia fascista. Avendo il regime investito sull’apparecchio radiofonico, altro forte strumento di propaganda, un esempio di controllo sulla comunicazione può essere fornito dall’imposizione fatta a Nicolò Carosio, il primo grande radiocronista italiano del calcio: evitare termini ‘codificati’ inglesi, pronunciare solo un lessico calcistico nazionale.