Di Matteo Quaglini
Dietro ogni macchina da presa c’è la malinconia della sconfitta e l’estasi della vittoria. Se il cammino in Coppa Campioni della Juventus e della Panini Modena fosse una pellicola cinematografica, sarebbe probabilmente nel primo caso un lungo piano sequenza alla Barry Lindon e nel secondo un’istantanea alla Pelè in rovesciata. Il confine sottile tra perdere e vincere forse è nel tempo, lungo e fisso quando si tratta di vivere la sconfitta, legato ad un attimo ben scolpito nella memoria quando è il momento di celebrare il trionfo.
Molto infatti di Federico Fellini e Stanley Kubrick hanno avuto le vittorie delle due squadre italiane più vincenti di sempre, nel viaggio in giro per l’Europa. Di Fellini ci sono, in questa pellicola chiamata Coppa dei Campioni, i personaggi: alcuni capaci di tenere la scena come faceva Carlos Gardel nel tango e nella musica, altri snob e decisivi, taluni barocchi, altri ancora rapidi e sfuggenti, molti maestosi e marmorei in ogni loro gesto.
La cinematografia del genio romagnolo racconterebbe i giocatori con i loro gesti decisivi, le loro giocate illuminanti, il loro tenere la scena nel momento topico quello in cui si determina il risultato. A Stanley Kubrick toccherebbe raccontare, invece, le suggestioni e i tratti gotici delle atmosfere serali delle palestre di Modena e dell’Europa confinate in piccole strade ai margini del trambusto del centro città, dove aprendo il portone d’ingresso si entra in un universo che vede le gesta dei campioni di Modena e di quelli del Cska Sofia. E ancora le giocate del Friedirichschafen il Bayern Monaco della pallavolo, così come i fotogrammi del dominio austero e burbero del mitico Cska Mosca orso russo oggi andato in letargo per sempre, ma ieri depositario del copione da primo attore sotto rete.
Pronti, motore azione dunque: siamo sul set a Madrid nel 1962 l’anno in cui John F. Kennedy colloquia diplomaticamente con Nikita Krusciov affinché la crisi dei missili di Cuba non sia la culla della terza guerra mondiale. Li nella capitale che Filippo II creò per sintetizzare l’impero spagnolo, Enrique Omar Sivori e John Charles compiono il loro gesto felliniano. Durante il ritorno dei quarti di Coppa Campioni, dopo aver perso 1-0 all’andata, c’è una palla alta e lunga al limite dell’area del grande Real che Sir John Charles da Swansea ha appena indirizzato di testa alla sua imperiosa maniera nel cuore della difesa “blanca”, su quella sfera precisa accorre Sivori che controlla di destro e evitando lateralmente il portiere insacca di sinistro.
Un gol da “Amarcord” per il nuvolo di personaggi che lo raccontano. C’è il gigante buono, l’argentino irriverente, l’Hidalgo Di Stefano che ancora comanda la sua guardia di campioni, c’è anche il ramingo ungherese Ferenc Puskas un altro mancino che vedeva la vita dal lato opposto della strada battuta da tutti. La rete di Sivori diede la vittoria alla Juventus, ma non bastò per passare alle semifinali vietate alla Signora degli scudetti dalla terza partita che i madridisti vinsero 3 a 1.
Quello che rimase però fu il gol “tanghero” del gran zurdo, una rete da immaginifico teatro itinerante come saranno poi gli altri gol argentini della Juventus in Coppa Campioni: il doppio sinistro di Dybala contro il Barcellona del gioco stringente nelle serate dei campioni 2017 e l’arpionata a ferire il cuore del Tottenham in una delle migliore giocate d’area di Higuain, nell’anno domini 2018.
La pellicola Kubrichiana della Panini Modena ha la fissità dei soldati austriaci che aspettano gli inglesi in marcia quando i campioni d’Italia 1986 sono sotto 2 set a 1 contro il Cska Sofia del lupo Ganev allo Sport Zentrum di Hertogenbosch, in Olanda. Ma poi prende corpo la rimonta di Bernardi, Lucchetta, Cantagalli e il 3 a 2 a favore di Modena è come la British Grenadiers March di Barry Lindon, epica.
Tra i personaggi felliniani delle partite dei campioni, ci sono due francesi che impongono agli avversari la loro diversità. Uno ha la spocchia di Robespierre al massimo del suo regno e la classe di Saint Just nella visione del “gioco”. Proprio contro i connazionali del Bordeaux nella semifinale del 1985 sciorina una prestazione da illuminismo volteriano. Due lanci in profondità, come solo lui e Rivera hanno saputo fare nel calcio italiano, per i due gol di Boniek e Briaschi. Quindi la pennellata finale con un tiro al volo dal limite, il colpo della fine della tenzone.
L’altro “francioso” per usare il romanesco storico dei film sulla Roma papalina e risorgimentale, è Zinedine Zidane da Marsiglia. Meno altezzoso di re Michel, ma più barocco. Meno goleador, ma più portato a legare il gioco. Meno uomo squadra e più solista. Il suo attimo felliniano è anch’esso in una semifinale, perché si può essere diversi ma c’è sempre un momento che congiunge, contro l’Ajax, nell’aprile 1997, già battuto in finale l’anno prima. Con le sue veroniche e i suoi gol è come Platini il Mastroianni della “Dolce Vita” juventina che accarezzando la palla, la sua Anita Ekberg porta la Juventus alla sua finale numero cinque.
Se Zidane è più l’individuo al potere come voleva l’illuminismo di marca francese, Platini era il gioco di squadra fatto uomo e quando si parla di gioco d’assieme non si può non pensare a Velasco che con questo metodo ha insegnato e vinto nella pallavolo. La Panini Modena mette in pratica la sua idea pietra angolare di vittorie mondiali, e ribalta lo 0-3 di Cracovia. Siamo nel settembre del 1988 anno olimpico, e ci vuole la partita perfetta. Il “Tempio” di Modena, agorà pallavolistico tra i più importanti in Europa è gremito e spinge alla rimonta.
I polacchi, rappresentanti di una grande scuola oggi di nuovo in auge e campione, sono alle corde: la distribuzione di gioco di Vullo, le veloci di Andrea Lucchetta, le ricezioni e i contrattacchi di Bernardi mettono all’angolo i cracoviani e fanno nascere una delle notti di coppa più magiche di sempre. E’ 3-0, è parità. Ora nella pallavolo non esistono i supplementari e nemmeno i rigori, all’epoca poi non c’era nemmeno il golden set, mentre si gioca serve contare i punti che si fanno e quelli che si prendono, rapportandoli a quelli d’andata.
La Panini in trans agonistica celebra il rito pagano della linea Maginot, della Grande Muraglia cinese, del Limes di romana memoria, e concede ai polacchi solo 15 punti. Finì 69 a 60, il viaggio di Modena nella coppa dei sogni poteva continuare. Come, nelle sue migliori versioni difensive, continuava anche quello della Juventus. La difesa come roccaforte a dare forza alle speranze.
Il pareggio 0-0 di Derby contro Brian Clough nella semifinale del ’73, la saldezza difensiva nella Manchester di Sir Alex Ferguson nel ’97, gli zero gol subiti a Dortmund contro il verticale Borussia di Klopp nella primavera del 2015, sono stati tra le copertine migliori del libro di coppa juventino. Quando resisti all’assedio dei Lanzichenecchi e li colpisci sotto la corazza con le stoccate fulminee alla Altafini, i rigori chirugici alla Del Piero, le cannonate da fuori alla Tevez, allora significa che puoi ambire con legittimità all’oscar della pellicola chiamata Coppa dei Campioni.
Nella modernità tutti i risvolti tecnici di un Modena-Cska Sofia, di una grande partita cioè sono stati contenuti per la Juventus nell’epica delle sfide con il Real Madrid. Quando la Panini del Cavalier Giuseppe affronta i bulgari nella semifinale del ’90, ha già vinto 6 partite lasciando solo tre set agli spagnoli del Portol, ai rumeni della Steaua e ai tedeschi dell’Amburgo che nel calcio evocano incubi per il Barcellona britannico e la stessa Juventus dei campioni del mondo spagnoleschi.
La vittoria per 3-0 è una delle più belle e suggestive: non c’è più Velasco approdato sull’ammiraglia azzurra, al suo posto Vladimir Jankovic un misto tra Boskov e Milutinovic. La partita segna momenti di confine per Modena, un grande avversario come Ljubomir Ganev è battuto, per la quarta volta la squadra è in finale e ha una nuova possibilità contro l’orso russo, il generale inverno chiamato Cska Mosca.
E qui torniamo per associazione tra colossi al Real Madrid e alla Juventus e alla loro corrida. La Juventus batte sempre nel segno del quattro i primi padri della coppa. Nel ’96 Del Piero con una punizione beffarda e Padovano vendicano la sconfitta ai rigori di dieci anni prima, nel 2003 in semifinale altra rimonta con l’Alex nazionale che fa rivivere il colpo felliniano di Charles e Sivori, del ’62. Prima reincarna Sir John assistendo di testa il rapace Trezeguet, poi segna di sinistro alla Sivori e infine vede volare in porta Nedved altro mancino che affonda l’ammiraglia del Madrid.
C’è un aspetto tecnico da cinema felliniano in queste vittorie juventine, la sconfitta dei grandi avversari. E così Zidane, Figo, Ronaldo il fenomeno, Casillas, Hierro, sono come il campionissimo Ganev per una volta stessi al tappeto. Tanti George Foreman comunque grandi, ma un po’ intontiti dai pugni di Zalayeta e Capello nella terza rimonta della Juventus sul Real e dalla magie pedatorie di Del Piero che da campione del mondo diventa per una sera l’infante di Spagna. Roba di dieci, quindici anni fa. E oggi? La contemporaneità del viaggio in coppa ha diviso Juventus e Modena, la prima ha continuato ad approdare in finale, l’altra ha giocato solo alcune gare al suo livello. I ruoli qui si invertono e quelle che prima erano partite felliniane diventano scene kubrichiane. C’è qualcosa di Kubrick nel Cristiano Ronaldo che prima sconfigge una Juventus eroica nella Madrid del 2018, grazie ad un colpo di testa angelico che apre al rigore della salvezza madridista. E c’è qualcosa sempre del gotico Stanley quando il portoghese approda alla Juventus per fare l’uomo squadra, quando firma prima la vittoria di Manchester col suo calcio pieno e poi quando con una tripletta silura il bastione dei corsari di Simeone.
Nelle vittorie di Modena contro il Paris (1999), il Friedrichschafen (2003), il Vojvodina a Novi Sad nell’inverno del 2015, nei successi in rimonta sul Resovia la squadra polacca che ha costituito in questi anni il cuore tecnico della Polonia bi-campione del mondo, nell’ultimo trionfo europeo di Velasco contro lo Zaska un anno fa, c’è più che il cammino verso la vittoria il gusto del tocco gitano, della noblesse oblige grigia ma sempre presente. Trionfi che toccano “La Strada” di tante battaglie, ma non più il successo da “Oscar” come quello che venne assegnato al film nel ’57; sono come i personaggi di Fellini nell’omonima pellicola: fragili, burberi e legati a sentimenti che non ci sono più. Tutte queste vittorie di Juventus e Modena però, hanno insieme, fatto la storia del cammino delle due regine italiane. Ciascuna ha rappresentato l’immagine di Pelè che rovescia in porta il gol, un gol juventino o un punto modenese. Un simbolo per la Juventus e la Panini Modena della loro fuga per la vittoria.