Ruini Firenze e Fiorentina, gli eredi di Lorenzo il Magnifico

Posted By on Ago 5, 2020 | 0 comments


Di Matteo Quaglini

 

Chissà se Lorenzo il Magnifico vedendoli giocare gli avrebbe amati, questi ragazzi che impazzivano di gioia inseguendo o schiacciando un pallone. E chissà cosa avrebbe detto, il Signore dei Signori italiani e padrone di Firenze, delle loro gesta. Probabilmente si sarebbe entusiasmato per gli scudetti della bella époque italiana anni ’60 primi ’70 della Ruini, la squadra capace di rompere dopo dieci anni consecutivi l’egemonia di un’altra grande città rivale della sua Firenze: Modena l’emiliana. E con altrettanta probabilità si sarebbe entusiasmato per la Fiorentina del ’56 di Fulvio Bernardini, per le giocate di classe di Giancarlo Antognoni: uno che nella sua corte ci sarebbe stato a pennello. Il Signore della Firenze quattrocentesca culla del Rinascimento e della Cultura con la maiuscola che si deve agli universi cosmici e significativi della nostra vita, avrebbe sobbalzato a ogni gol di Batistuta. Gli sarebbe piaciuto il grande centravanti argentino, che sarebbe stato un suo perfetto generale nelle lotte di potere tra gli Stati Territoriali italiani del’400 dei torbidi.

Il Magnifico si sa amava i sogni, quelli grandiosi e visionari. E un sogno grandioso così come a volte visionario sono state la Ruini Firenze pallavolo e la Fiorentina. La squadra che voleva giocare la palla in aria, nella città del calcio storico fiorentino, nacque il 17 settembre del 1962 nel pieno del ciclo più fulgido della Fiorentina che era cominciato proprio dallo scudetto del 1956, quando il Giglio aveva relegato al secondo posto il Milan di Liedholm e Nordhal con dodici punti di distacco. La fondarono i Vigili del Fuoco di Firenze intitolandola a Otello Ruini un ufficiale che era morto per le conseguenze di un incendio. Con un nome ben scolpito nel cuore, iniziarono a giocare quelli che erano per loro dei campionati di assestamento. Dal ’60 alla stagione ’62-’63. Poi il boom, fragoroso come quello economico dell’Italia di quegli anni intrisi di Dolce vita. Nel 1964 il PalaRuini esplode ed il primo scudetto della storia, l’egemonia delle tre squadre modenesi è finita. E’ un trionfo nuovo, inatteso. In classica versione da Lorenzo il Magnifico: posso anche quando non posso.

In questo la vittoria sembrò molto simile a quella della Fiorentina di Fulvio Bernardini, il Dottor pedata per dirla con Brera. Anche quella squadra sapientemente costruita dal grande fuoriclasse anni ’30 venne fuori senza avere uno storico alle spalle. Fino ad allora il miglior risultato era stato il successo in Coppa Italia nel 1940, l’anno in cui l’Italia aveva smesso di essere non belligerante ed era scesa in guerra. In campionato i terzi posti del ’35, del ’41 e del ’54 erano la memorabilia del proibito. Lo scudetto non aveva mai bagnato l’Arno e nemmeno si era avvicinato a farlo.

Fulvio Bernardini aveva avuto una pensata geniale per creare una diversità forte con l’eleganza aristocratica del Milan degli svedesi e con l’Inter due volte campione d’Italia grazie al catenaccio di Foni. L’idea era giocare nella patria del contropiede con il “Metodo”, il WM inglese. Una strategia intelligente, ma non rivoluzionaria. Il modulo inglese era stato già introdotto nel campionato italiano nel ’39 e proprio dalla Fiorentina di allora assieme poi al Genoa di un William Garbutt di ritorno. Poi fu il Grande Torino a farlo proprio e a costruire, anche su di esso, il suo mito: era il 3-2-2-3 fondato sulla doppia idea del ritmo incessante e della centralità del gioco di centrocampo.

Quella Fiorentina vinse perdendo una sola partita su trentaquattro, l’ultima. Il suo sistema era collaudato e perfetto. In porta giocava Giuliano Sarti, che avrebbe fatto poi le fortune dell’Inter e di Herrera. La difesa a tre era composta Magnini, capitan Rosetta al centro e il grande Cervato sulla sinistra, mentre il quadrilatero di centrocampo che forse tanto sarebbe piaciuto a Sir Wellington, era composto da Chiappella e Segato mediani difensivi e Gratton e Montuori mezze ali offensive. In attacco da destra a sinistra Julinho, Prini e Virgili.

Un squadra agile e con quattro giocatori di classe superiore Sarti, Cervato, il cileno Montuori e il brasilano Julinho che alimentava il mito dell’ala destra. Quattro guarda caso come quelli della Ruini. Il palleggio di Mario Mattioli, uno che giocherà contro grandi avversari internazionali, il gioco in difesa e in attacco di Erasmo Salemme, Andrea Nencini e del triestino Sergio Veljak 36 volte moschettiere azzurro e insignito delle palma di miglior giocatore del campionato italiano di pallavolo nel 1969, l’anno guarda ancora il caso della Fiorentina per la seconda volta campione d’Italia. Con questi corsari della rete e del parquet la Ruini Firenze rivinse il campionato italiano nel 1965, l’anno dell’Inter euromondiale, e poi nel 1968 trionfando a Faenza in un acre spareggio scudetto contro Parma. Era la rivincita di due anni prima, quando nel 1966 gli eredi di Lorenzo il Magnifico persero nella Milano culla del calcio europeo il possibile terzo scudetto consecutivo. Li batté la Lubiam (Virtus) Bologna di due grandissimi padri nobili della pallavolo italiana: Odone Federzoni e Gian Franco Zanetti signore degli scudetti sotto rete.

In quel 1966 la Fiorentina vinse la Coppa Italia, guizzo di alcuni grandissimi della storia del Giglio che marca in difesa, tesse a centrocampo, allunga in attacco. C’erano, tra gli altri, Ricky Albertosi il portiere volante, Picchio De Sisti l’alunno di Schiaffino, Kurt Hamrin l’uccellino capace di segnare un gol ogni due partite. Era grande Firenze, nel calcio e nella pallavolo. Grande e Magnifica proprio come l’aveva pensata, cinquecento anni prima, il suo Signore. In ciascuno riviveva l’altro. E così in Aldo Bellagambi, fiorentino doc, allenatore della Ruini, rivivevano le figure di Fulvio Bernardini e di Bruno il Petisso Pesaola l’allenatore del secondo scudetto, quello della Fiorentina Ye-Ye del 1969.

L’anno prima, nel ’68 che ribollisce di rivoluzioni sociali, aveva vinto il Milan di Rivera e Rocco, il tessitore e il padrone del calcio all’italiana. Nessuno pensava, ancora una volta, alla Fiorentina.

Il tempo dei quattro secondi posti consecutivi dopo lo scudetto, delle due finali di Coppa Italia e della finale di Coppa Campioni a sfidar il Real Madrid di Di Stefano erano ormai storia e non più cronaca. I ruggenti anni ’50 e ’60 del Giglio fiorentino che gonfia le reti sembravano finiti. E, invece, il Petisso trovò l’alchimia giusta, novello Malatesta. Con Franco Superchi in porta, la coppia Brizi e Ferrante in difesa, la regia senza fretta ma senza sosta – per dirla con Goethe – di “Picchio” De Sisti, gli assoli di Amarildo e Chiarugi sotto porta, la Fiorentina vinse il campionato davanti al Cagliari, al Milan che si sarebbe coronato di alloro europeo e all’Inter ancora intrisa dalla classe magniloquente della sua Vecchia Guardia.

La Ruini, come detto, aveva vinto l’anno prima e così Firenze era grandissima anche nello sport. Negli anni seguenti i pallavolisti continuarono a vincere: campioni d’Italia 1971 e 1973 l’anno in cui Mattioli, Nencini e Salemme sopravanzarono di due punti la Lubiam Bologna e la Panini Modena campione d’Italia in carica. In quel biennio, così felice per gli amanti della palla in aria, la Fiorentina si era affidata a Liedholm per uscire dalla crisi di una salvezza acciuffata all’ultima giornata del campionato ’70-’71 solo nei minuti conclusivi di un drammatico Juventus-Fiorentina al Comunale di Torino.

Il “Barone” rimise insieme i cocci e riportò la squadra tra le prime cinque, mentre la Ruini imboccava la parabola dell’oblio sportivo. A due anni dallo scudetto del ’73 i pallavolisti che avevano onorato appieno l’idea imperiale di Lorenzo il Magnifico, retrocedettero. Firenze in quel momento era una città spoglia. Mattioli, Salemme e Nencini erano emigrati nel ’74 ad Ariccia per vincere, l’anno dopo, il più incredibile degli scudetti della pallavolo. Liedholm arrivava terzo con la Roma della ragnatela e Picchio De Sisti da capitano del Giglio era tornato a casa a orchestrare la regia della sua amata e natia Roma, insieme all’anarchico Cordova.

Il guizzo venne affidato all’allenatore Mazzoni, che aveva sostituto Rocco in panchina. Sotto la sua guida Giancarlo Antognoni aveva condotto i suoi a vincere la Coppa Italia ’75 battendo il Milan di Rivera e Albertosi. Già lui Giancarlo il figlio degli dei, quanto sarebbe piaciuto a Lorenzo il Magnifico che del talento faceva il suo vanto. Nel calcio che conta lo lanciò Liedholm che essendo stato un fuoriclasse, riconosceva subito chi ne aveva le stigmate. Mentre la pallavolo declinava in universi nobili ma secondari come quelli della C o della D, la storia moderna e contemporanea della Fiorentina ruotava tutta intorno alla classe e alla visione di gioco di Antognoni. Su di lui nacque la Fiorentina anni ’80 dei conti Pontello, regale e un po’ troppo naif per vincere. Su di lui si appoggiarono le direzioni sportive per affiancargli campioni di tutte le latitudini da Passarella a Graziani, da Pecci a Baggio, in classico stile rinascimentale.

Sembra di vederlo il Signore dei Signori italiani al tavolo rotondo attorniato da questi e altri campionissimi del Giglio come Pedro Petrone (il primo bomber anni ’30), Batistuta, Rui Costa, Nandor Hidegkuti il centravanti di manovra della Grande Ungheria che vinse la prima e unica coppa internazionale della Fiorentina da allenatore: la Coppa delle Coppe 1961, contro i Rangers Glasgow. Tutti lì vicino al re incontrastato della città culla della Cultura. E la Cultura si sa bisogna averla anche nello sport. Nel calcio e soprattutto nella pallavolo. Sulla storia la Ruini e la Fiorentina sono state grandi, grandissime. La squadra fondata dal marchese Luigi Ridolfi Vayda Vernazzano nel 1926 fondendo la Palestra Ginnastica Fiorentina Libertas e il Club Sportivo Firenze, ha studiato anche di più storia internazionale rispetto alla Ruini. Se i cinque volte campioni della palla in aria si  sono fermati al primo turno della Coppa Campioni 1969 perché quella era l’epoca e l’epopea delle grandi squadre dell’Est Europa, la Fiorentina ha, invece, attraversato il continente con orgoglio e sogno.

E’ stata tra le quattordici squadre europee a disputare tutte e tre le finali delle coppe di un tempo, ha giocato una finale di Coppa dei Campioni contro il Real più grande di sempre, quello di Don Alfredo Di Stefano. Nel 1990 ha raggiunto con Baggio ancora una ultima gara seppur sfortunata nel risultato finale contro la Juventus di Dino Zoff. E’ stata, dunque, europea come la Firenze che sognava il Magnifico. Ed è stata sempre l’espressione di un grande Stato Territoriale anche quando ha chiamato al suo capezzale figure diverse dalla sua filosofia sportiva come Trapattoni e Mancini. Proprio col Mancio diciannove anni fa vinse l’ultimo trofeo della sua storia, la Coppa Italia 2001. Poi la crisi e la procedura di fallimento, che tanto ricordavano ai toscani doc la caduta degli dei della pallavolo di ventisei anni prima.

La Fiorentina ha saputo però rialzarsi e da Cecchi Gori è passata ai Della Valle e oggi a Rocco Commisso, lo zio d’America che sogna ancora una volta il Giglio. Così come lo sogna Giuliano Senatori presidente della pallavolo fiorentina che oggi cura il settore giovanile nel nome un po’ sopito ma sempre magico, come quello dei Rosacroce, della Ruini. Chissà magari un giorno torneranno il grande calcio e la magnifica pallavolo di un tempo a Firenze. Quel giorno quando vedremo nuovi campioni col numero nove o col dieci calciare in porta o schiacciare non avremo dubbi: un nuovo Lorenzo il Magnifico sarà approdato in città.

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