History Moments, I fiori d’arancio di Rinus Michels

Posted By on Ott 1, 2020 | 0 comments


Matteo Quaglini

Una rivoluzione si sa vuole cancellare il presente e imporre il futuro, declinando i suoi talenti. Così per vezzo, per amore di se stessi e per cancellare ogni ombra di ciò che è stato. L’arma per realizzare questo sogno eretico è il talento che in un mondo che abbandona il suo passato, è tutto. E tutto ruota intorno ai suoi tratti mistici, ai suoi pensieri non convenzionali, alle sue visioni geniali, ai suoi sogni per altri irrealizzabili mentre per i rivoluzionari sono già realtà.

I rivoluzionari francesi alla Danton, alla Saint-Just, alla Marat o nella versione dell’incorruttibile Robespierre sapevano, già prima che i fatti li portassero a sovvertire il mondo vecchio, che ce l’avrebbero fatta a crearne uno nuovo. E nel mondo nuovo gli innovatori si muovono a loro agio navigando forte nel mare del cambiamento. Navigano e tracciano rotte sconosciute e incomprensibili ai più, ma nella loro mente chiarissime e piene di gloria. Una gloria che nel calcio ha avuto il marchio del sentimento libero di stampo olandese. Tutto questo grande quadro della diversità di pensiero e di azione è stata l’Olanda eretica e magnifica del 1974: la rivoluzione fatta calcio, l’impossibile reso possibile, il sogno realizzato e non solo sognato, il gioco immaginifico a bandiera di un nuovo modo di essere.

La grande rivoluzione ci fu veramente e sconvolse il mondo del pallone come quelle persone magiche dagli occhi grandi e vivi che corrono forte incontro alla vita e nella loro imprevedibilità ricordano agli altri che i sogni esistono per essere realizzati. Ricordano, a chi le guarda con gli occhi piccoli dell’amore, che è bellissimo provare a stare al loro passo.

Il passo dell’Olanda di Rinus Michels era forte e veloce, un’armata che marciava senza timori e paure convinta com’era d’insegnare lo sconosciuto, di trasmettere la modernità, di rompere il muro del calcio per loro statico, di solcare il mare della tattica e l’arcipelago dei tatticismi introducendo nelle sacre scritture del football il sole della zona pressing. Ciascuno di quei pirati del tempo, oscuro e affascinante, contribuiva a dare anima e personalità all’Olanda una squadra che prima di quel mondiale era anonima e grigia e che diventò, per tutti, l’arancia meccanica espressione di genio e talento estremo.

Quando arrivarono in Germania, nel paese dell’efficienza e dell’ordine assoluto, gli olandesi non avevano una storia al mondiale: sempre eliminati, senza un pedigree internazionale, battuti anche da Belgio e Svizzera allora due squadre non certo fortissime.

Eppure col tempo e le idee di Rinus Michels, le cose erano cambiate. Dalla metà del anni ’60, i favolosi anni del risveglio culturale, l’ex-attaccante Rinus era divenuto il demiurgo del gioco totale, dell’universalità dei ruoli, del talento lavorato e levigato nell’officina della disciplina, ne nacque così un capolavoro alla Michelangelo. Un progetto tecnico alla Leonardo da Vinci. Un lavoro che trovò nella coppa dalle grandi orecchie, il suo fulgido laboratorio alchemico.

Il grande teatro dei campioni della coppa più agognata aveva ora, nei commercianti d’emozioni olandesi, i nuovi padroni: Ajax e Feyenoord. Due squadre che erano il cuore dell’Olanda a Germania ’74, venature dalle quali pulsava il sangue aristocratico di Willem van Hanegem capitano dei ragazzi di Rotterdam e il magistero visionario dei cavalieri di Amsterdam Krol, Muhren, Rep con su tutti lui il grande cerimoniere Johan Cruijff.

L’alfiere preferito del mentore Rinus, l’uomo e il giocatore che dopo tre Coppe dei Campioni consecutive aveva imposto il suo imperio in Spagna nella calda Barcellona, quattordici anni dopo di nuovo campione, anche allora indipendentista dalla Madrid degli ultimi fuochi di Francisco Franco, il caudillo.

Una squadra legata ad un concetto, il gioco totale. A un’idea dove tutti sanno fare tutto. A un numero, il quattordici del loro più grande dioscuro. A un sogno, portare nel calcio il socialismo della libertà. A centrocampo come in attacco.

Una squadra fatta da uomini che, tra di loro, non si amavamo. E che non facevano nulla per  nasconderlo, anche qui nel segno della libertà di espressione più assoluta. Gerry Muhren e Piet Keizer mal sopportavano gli out-out del divo Cruijff che cominciò da lì, forse, a essere raccontato dalla storiografia del football, come il grande dittatore. Anche Rep, Rensenbrik e Neeskens, l’altro grande “Giovanni” della squadra, facevano vita appartata correndo per le strade dei loro singoli sogni. Ma la grandezza di quella squadra, che cambiò il calcio, stava proprio nel fare delle contraddizioni di ciascuno un unico grande monolite, dal colore arancione.

Era uno dei dieci comandamenti del “profeta Rinus”: tutti devo giocare al fianco dell’altro credendo nelle proprie e nelle altrui qualità e nella vittoria di squadra. Qualcosa di più che l’idea di vincere una semplice partita. Così approdarono in Germania, questi radicali del gioco offensivo, e all’inizio vinsero, come Cesare in Gallia.

Tra Dortmund, Dusseldorf e Hannover due vittorie con Bulgaria e Uruguay e un pareggio dal sapore svedese. Poi il girone di semifinale: 4-0 all’Argentina, 2-0 alla DDR e ancora 2-0 al magno Brasil, defenestrato dal trono mondiale. In finale, dunque. In finale per affrontare la Germania depositaria del calcio conservatore e utilitaristico. Una partita da novecento puro, ideologica e teatrale come un film di Stanley Kubrik.

Una partita tra fuoriclasse contro perché i tedeschi schieravano tutti insieme i loro lanzichenecchi, eredi di Roma antica, figli di Carlo Magno, giocavano sicuri e disinvolti il Kaiser Franz Beckenbauer, il maoista Paul Breitner, l’invalicabile portiere Sepp Maier, il principe aristocratico di Colonia Wolfgang Overath, l’asso del centrocampo Uli Hoeness e il bucaniere del gol Gerd Muller meglio noto nella foresta beckettiana del football come “der rascher”, il veloce.

Vinsero i tedeschi 2-1 in rimonta. Non si arresero, come nel loro costume, al palleggio ossessivo olandese del primo minuto che portò Cruijff a essere abbattuto in area e Neeskens a segnare il gol dell’Olanda campione del mondo. Non fu così perché la Mannschaft segnò anche lei su rigore con Paul Breitner, innesto “olandese” nella Germania dei ruoli specializzati. Poi una palla in area venne raccolta e stoppata da Gerd Muller fedele ancora una volta al ruolo che il teatro calcistico gli aveva assegnato. Sotto di 2-1 anche la grande Olanda si arrese alle parate di Sepp Maier. Al triplice fischio dell’inglese Taylor la storia chiuse di nuovo il cerchio: la Germania delle note wagneriane aveva battuto, vent’anni dopo l’Ungheria di Puskas, i nuovi depositari del gioco della modernità. Ma gli olandesi, che perderanno la finale anche a Buenos Aires quattro anni dopo, furono anch’essi campioni. Imporre uno stile di gioco che ha caratterizzato gli ultimi quarant’anni di calcio, non è forse più grande che essere “solo” campioni del mondo?

 

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