Di Francesco, Gattuso e Montali: storia di generali e giovani capitani da panchina

Posted By on Feb 26, 2018 | 0 comments


di Matteo Quaglini

 

Ieri Roma contro Milan, come Roma contro Milano, un duello tra squadre, città, allenatori e sport. Un racconto sportivo classico nella storia del calcio, più sporadico e quasi assente nella pallavolo. Se non fosse, però, per un nome o meglio per un allenatore che ha allenato in entrambe le città: Gian Paolo Montali. Ieri mentre si giocava un Roma-Milan che valeva l’Europa, l’assioma è nato spontaneo così come naturale è sorto il parallelo tra gli allenatori, il pluridecorato Montali e i giovani di belle speranze Di Francesco e Gattuso.

I fatti tecnici e tattici di una partita che si è decisa nel secondo tempo come tutte le gare di dettaglio, ci portano a considerare l’azione che viene dalla panchina. Il momento in cui l’allentore esce dalla fase dell’incitamento, della carica verso la squadra e entra, forte e deciso o incerto e insicuro, nella strategia del gioco: orientandolo. Chi pensa che l’allenatore di una squadra, il coach di un gruppo, il generale di uomini, conti poco: sbaglia, e di netto pure. Nulla vale i giocatori perchè sono loro che con la tecnica, la tattica individuale, la personalità, la lettura o meno del gioco, determinano la partita così come i soldati francesi determinavano le guerre napoleoniche, i legionari favorivano i successi dell’Impero romano, i soldati dei monarchi cattolici spagnoli aprivano le porte al Siglo de oro. Ma c’è una variente: il generale. L’uomo che pianifica, che gestisce, che detta i tempi, che può con una mossa spostare una partita e farla girare oppure chiuderla su se stessa e consegnarla agli avversari.

Si è visto, ieri nella partita storicamente del gol, un fatto tecnico molto interessante: Di Francesco e Gattuso non sono ancora Montali. Non sono cioè quello che Montali era da ragazzo quando ha cominciato su una delle panchine più grandi della pallavolo italiana, Parma. Il Monty come lo chiamava, a volte, il giornalismo pallavolistico, quasi a mutuare i soprannomi dal vecchio west di Sergio Leone, esordì a 26 anni su una delle panchine più grandi della geografia della pallavolo. Sarebbe come esordire a quell’età sulla panchina dell’Inter o del Milan. Un salto in un mondo più grande di te, che poi fare solo se hai l’ambizione di fare, nella vita, il generale.

E Gian Paolo Montali fin da allora, fin dagli scudetti giovanili, fin da quando era assistente di Alexander Skiba il Liedholm della pallavolo, fin da tutto questo si sentiva generale e comandante di uomini e giocatori. Megalomania da vittoria. Conpulsione da capo. Sogno di percorrere a tutta velocità la strada del trionfo. Di Francesco e Gattuso sono diversi in questo nastro di partenza che definisce il tratto di un allenatore. Diversi perchè hanno avuto esordi opposti a quelli di Montali. Di Francesco ha dovuto costruire squadre in piazze estetiche come Pescara, Lecce, Sassuolo, la vittoria era nella costruzione non nei titoli. Bellissimo ma troppo privo, per Montali, di nirvana, quello alla Kurt Cobain. Gattuso da Pisa ha mosso la prima, vera, e contraddittoria esperienza, anche qui si cammina al passo, mentre il Monty fin da ragazzo ha sempre sognato il galoppo e questo giustificò molto, se non tutto, il suo da subito iniziale duello col divino Velasco.

Se la partenza può essere diversa, perchè giustamente e culturalmente diversi sono gli uomini e le loro personalità, quello che è interessante e che è emerso ieri in un Roma-Milan da spareggio rusticano alla mezzo giorno di fuoco, è la gestione delle due squadre da parte di questi due giovani alleantori. Montali da giovane con la stessa poca esperienza di grandi squadre, avrebbe gestito così?

Sarebbe stato cioè avventato e imprudente come Di Francesco nel secondo tempo, col suo tutti avanti e speriamo di pareggiarla? No, non l’avrebbe fatto. Avrebbe ragionato l’attacco anche il più fantasioso che ci potesse essere. Quando affrontava Modena, la Juventus della pallavolo, da giovane allenatore che sognava di battere il mito Velasco, come Brian Clough sognava di battere Don Revie nell’Inghilterra anni ’70, organizzava una pallavolo d’attacco tutta schemi veloci e combinate per abbattere il miglior muro della serie A comandato da un dioscuro buono come Lucchetta. C’era metodo nell’azzardo, non imprecisione.

Ecco la differenza che non nasce dal forviante concetto dell’inesperienza, ma trova patria nel ragionamento sottile. In questo Di Francesco e Montali sono diversi: uno, il Monty, era un pirata che azzardava la mossa perchè la vedeva prima e quasi voleva che la partita andasse storta per cambiarla; l’altro è un tecnico di una macchina che cambia pezzi e aggiunge perchè deve non perchè anticipa il guasto. In questo Di francesco deve crescere, nella lettura della partita che cambia e nei cambi tattici che la riportino dalla parte del mare dove si estende la sua sponda.

Gattuso, invece, con mosse semplici e dirette somiglia di più al giovane Montali. Passionale in panchina, attento alla compattezza e alle posizioni, allena in modo diretto come faceva il ragazzo-allenatore prodigio della pallavolo anni ’90, duri entrambi, cercano il gioco altro simulacro dell’allenamento. Gioca, gioca, gioca, diceva Stork il grande palleggiatore americano, quando raccontava delle parole di Montali in allenamento. Giocate, giocate, giocate ripeteva ieri Gattuso per incrementare il miglior secondo tempo del suo giovane Milan. Di Francesco e Gattuso non sono Montali ora, gli manca la visione fissa e incrollabile che il Monty già a 26 anni aveva per la vittoria. Lui già aveva un tratto che lo avvicinava e avvicina a Capello e a Mourinho, loro i giovani di oggi devo darselo ancora. Ma lo troveranno, questo è certo.

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