Diario di un Italiano a Lisbona

Posted By on Set 11, 2018 | 0 comments


Vincenzo Boscaino

“Portugal! Portugal!”. Il coro dei tifosi di casa ci sommergeva. Come una grossa onda oceanica, i 52 mila spettatori del Da Luz ci facevano sentire più piccoli e soli di quanto eravamo.

Si contavano sulle dita di una mano quelli di noi che avevano una maglia azzurra, quelli di noi che erano in silenzio, attoniti, mentre tutti attorno festeggiavano. Giravamo la testa per incrociare lo sguardo di chi come noi in quel momento si sentiva estraneo, straniero in terra straniera. Sconfitto. Ma nulla. Anche i nostri giocatori uscivano a testa bassa.

Portogallo Italia è una partita che sarà un tatuaggio indelebile nella memoria di chi c’era. Doveva essere il momento del riscatto, dell’orgoglio, della rivincita contro il destino. La partita che doveva far dimenticare un mondiale che per noi non è mai esistito, che doveva rilanciarci nell’olimpo del calcio, nel posto che ci compete, battendo i campioni d’Europa. Invece no. Purtroppo, no.

Il diario di bordo di noi italiani a Lisbona inizia con un sinistro presagio. L’inno nazionale, bello come sempre, che riecheggiava nel cielo della capitale Lusitana. Ma noi fuori ai cancelli, ad aspettare di entrare. Dovevamo capire che le cose sarebbero andate male. I nostri dentro al campo, e noi cosi tremendamente lontani.

Saltiamo i primi 5 minuti di partita, 5 minuti che ci sembravano un’eternità. Ad ogni boato del pubblico si credeva di aver perso l’azione più bella di sempre. Cercavamo di immaginare se fossero urla di gioia o di paura, di rammarico o di pericolo. Precisamente non so quale sia la condizione esistenziale di essere abbandonati su una zattera in mare. Ma essere fuori allo stadio è la cosa che più la ricorda: non avere il controllo di ciò che ci circonda, ma ciò che ci circonda determina il nostro stato emotivo. Potrebbe tranquillamente essere una tortura medievale, in cui ogni secondo ne sembra cento. Un tifoso non può sopportare tutto questo.

Finalmente si entra, e dentro è tutto bellissimo. Bambini in curva con nonni e genitori, il pubblico che cerca disperatamente di far partire un’ola che stenta a nascere. I giocatori a poco più di dieci metri da noi, quasi sentissi di poterli toccare. Ti guardi attorno e pensi cosa sia andato storto nella nostra evoluzione calcistica. Stadi vecchi e arretrati, con poche famiglie e servizi indecenti. Siamo a pochi chilometri dal nostro amato paese, eppure così lontani.

La partita è un calvario. Loro il possesso palla, loro le azioni migliori, loro la tecnica sopraffina. Cerchiamo di reagire, ma le nostre speranze si racchiudono in un colpo di testa di Zaza. Troppo poco. Troppo triste. A far sussultare il cuore di noi italiani è stata qualche azione sulla destra con Lazzari e Chiesa. Una Magra consolazione, ma pensiamo che il secondo tempo sarà differente. Lo sarà sicuramente.

Ci sbagliavamo di grosso. Si entra e dopo poco il Portogallo trova il vantaggio. Andre Silva viene ad esultare sotto la nostra postazione. Giriamo lo sguardo. Non si vuole vedere.

Il dopo è un susseguirsi di tristezza. Una punizione troppo lunga. Serpeggiava tra noi la netta sensazione di non meritarci lo spettacolo che stavamo assistendo. Le quattro stelle sul petto di ognuno di noi sbattevano contro la catastrofica realtà. Non siamo più quelli di una volta, non lo siamo più.

Esultiamo come un gol quando vediamo Belotti alzarsi dalla panchina. Il gallo non ci tradisce. Ci farà urlare di gioia. A chi interessa il bel gioco quando poi la pareggi di cuore e rabbia una partita. Ma non è successo neanche quello. Ne un sussulto, ne un gesto di rabbia. Il termometro emotivo dei nostri era fermo. Clinicamente morti.

I tre fischi dell’arbitro non si sentono neanche, persi nell’urlo della gente. Ci incamminiamo verso la metro con il cellulare in mano. Leggiamo le dichiarazioni dei nostri, con Mancini che non è soddisfatto della prestazione. Scappa un sorriso amaro. Ogni tanto scrutavi qualcuno che come te aveva la maglia azzurra, che camminava per la strada chissà per dove. Ti domandi che cosa ci faccia anche lui a Lisbona, come si sarà sentito in quei novanta minuti. Lo perdi di vista, risucchiato da maglie rosse di Cristiano Ronaldo. Chissà se anche lui avrà sognato di avere una gioia stasera. Chissà se si sarà sentito un poco meno lontano vedendo quegli undici giocatori con lo stemma tricolore in petto. Chissà.

“Are you Italian?” ci dice la polizia davanti ai tornelli della metropolitana. A una risposta positiva, segue un perentorio ordine di mettersi al lato della banchina. Dovremmo prendere l’ultimo treno, per evitare di mischiarci con i Portoghesi.

Dovevamo capirlo dall’inno, da quel presagio. Entriamo sull’ultima corsa, in silenzio. Ci guardiamo in faccia l’un l’altro. Un treno azzurro. Non credevo fossimo così tanti. Sorridiamo, si va a prendere una birra tutti insieme parlando dei mondiali del 2006. Che bella quella nazionali, quante emozioni. Forse un giorno ne avremo un’altra simile. Ci salutiamo, ognuno diretto chissà dove. Con il ricordo di una fantastica serata, che sola la nazionale può regalare. Nonostante tutto, nonostante la sconfitta.

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