Tottenham, i ragazzi dell’Europa

Posted By on Giu 25, 2019 | 0 comments


 

 

Di Matteo Quaglini

 

La vittoria non è arrivata, ma è stata lo stesso una grandissima campagna europea. Il Tottenham è ora una squadra matura e protagonista vera nell’Europa che conta, quella della Champions. A ventitre giorni dalla finale del Wanda metropolitano di Madrid possiamo fare un’analisi completa dei vice campioni d’Europa capaci di tornare all’atto conclusivo di una manifestazione europea dopo l’ultima volta targata 1984, ma ancora acerbi per battere il Liverpool e la sua storia.

In una delle sue ultime conferenze stampa al Manchester United José Mourinho arringando i giornalisti su cosa fosse allora, rispetto alla possibilità di vincere il campionato inglese, la squadra dei diavoli rossi disse: “ la storia gioca?” come a dire anche se abbiamo una grande storia, questa da sola non basta. La risposta è quindi no, ma la storia in una competizione di dettagli come la Champions certamente incide.

Così il Tottenham alla sua prima finale nel torneo più grande è sembrato flaccido, spento, leggero poco presente a se stesso. E’ stata la tensione della prima volta a bloccare i muscoli delle gambe “spurs”, ma anche la mancanza di un passato a cui ancorarsi, di una serie di finali a cui fare appello per capire come superare i momenti difficili del presente. Il Liverpool ha vinto per il rigore al primo minuto che ha inevitabilmente mandato all’aria tutte le strategie di Pochettino e per la sua esperienza di gloriosa Red Army svezzata a tutte le battaglie europee e forte di nove finali giocate nella notte dei sogni e dei campioni.

Nelle file del Tottenham sono mancati i giocatori cardine da Allì a Eriksen fino a Kane non in condizione ottimale dal punto di vista fisico causa l’infortunio delle settimane precedenti, e quindi non in grado di farsi spazio e esprimere la sua potenza fisica e acrobatica. Anche qui è mancata un po’ di storia personale, ma è pur vero che prima di diventare Mohamed Ali ciascun giocatore deve andare al tappeto per poi rialzarsi, esattamente il percorso che il grande pugile, icona degli anni ’60 e ’70, indicava per diventare un campione.

Il Tottenham, Pochettino e i suoi migliori giocatori sono andati al tappeto contro il grande Liverpool, ma hanno superato la prova più importante di questa loro gloriosa campagna europea: il saper reagire a ogni situazione avversa, il non mollare mai la presa, il saper rimontare. Tre cose che fanno solo le grandi squadre, i grandi giocatori e i grandi allenatori.

Le rimonte ci sono state sin dal girone eliminatorio, iniziato con un punto in tre partite. Il gol di testa di Vecino al novantesimo nella gara d’esordio a San Siro contro l’Inter sembrava, ancora una volta, il manifesto di una squadra capace di un buon gioco fino alla trequarti ma dal tratto bello e effimero per dirla alla Burke. Un’inconcludenza che sua maestà Messi ribadiva nella Londra capitale della corona inglese e che il Psv confermava in una notte olandese che terminava in pareggio.

Poi la svolta, caratteriale prima che tecnica. Due vittorie di misura sugli orange e sull’Inter con un decisivo gol di Eriksen che prendeva in mano per la prima volta la squadra nella coppa. Riassestata la classifica ai danni dell’Inter occorreva mettere in pratica il concetto del non mollare mai la presa: con questa mentalità il pareggio nella tana del leones catalani del Barcellona fu possibile. Pareggio e passaggio del turno assicurato.

Nelle gare ad eliminazione diretta il Tottenham ha giocato con grande aggressività fuori casa: ha vinto a Dortmund, ha segnato tre gol a Manchester nella casa del City, ha vinto con una rimonta storica alla John Cruijff arena di Amsterdam contro gli enfants prodige dell’Ajax di nuovo grande in Europa.

Quattro partite nello specifico hanno caratterizzato il gioco adottato dal Tottenham in questa Champions 2018-19. La prima è la gara di andata con i tedeschi del Borussia Dortmund a Londra, una partita affrontata con il modulo 4-4-2 dove Eriksen ha giocato da trequartista dietro le punte Son e Moura schierate affianco l’una dell’altra per attaccare la linea del fronte difensivo tedesco. Non è stato un caso infatti che il primo gol, quello che apre e spesso decide, è stato segnato dal coreano grande protagonista di questa coppa.

Con questo sistema incentrato su Eriksen vertice basso del triangolo offensivo e centrale nella tre quarti avversaria e dunque capace di giocare tra le linee i palloni determinanti per le punte, Pochettino è andato all’assalto delle squadre maggiormente offensive del torneo.

Il 4-4-2 di Londra è stato riproposto anche contro il City di Guardiola e l’Ajax della meglio gioventù. Un sistema che ha esaltato le qualità da fine dicitore di gioco del principe di Danimarca che in quella posizione si trova nel vivo del gioco può giocare in verticale anche pochi palloni, ma di qualità estrema, per le due punte strette che sanno andare ad occupare la posizione di centravanti quando la palla è sui rispettivi lati o raccogliere il passaggio indirizzato in porta. Con questa disposizione Manchester City e Ajax schierate col 4-3-3 e il 4-2-3-1 hanno trovato difficoltà a marcare il dieci del Tottenham e si sono ritrovate deboli nell’uno contro uno in area contro Son e Moura, altro uomo decisivo con la sua tripletta in terra d’Olanda.

Allora una domanda di natura tattica dobbiamo porci: perché nella quarta partita Pochettino ha cambiato? Il Liverpool ha giocato la finale 4-3-3 con Fabinho perno del centrocampo, Henderson mezzala destra e Wijnaldum mezzala sinistra, Mané, Firmino e Salah trio d’attacco. Perché dunque rimettere la squadra col marchio di fabbrica del 4-2-3-1 e Eriksen largo a destra in questo schieramento e rinunciare al 4-4-2? Forse un eccesso di tattica ha tradito Pochettino che nella partita più importante ha tolto il triangolo offensivo che aveva permesso un grande contro gioco nelle partite precedenti, non avendo più così Eriksen al centro delle operazioni.

Senza i passi verticali del danese, il Liverpool ha difeso bene su un Kane spento e non in forma e su un Allì mai capace dei suoi famosi raid in area di rigore. Nel momento decisivo il Tottenham ha cambiato pelle, snaturando il suo cammino in coppa. Eriksen fuori dalla zona nevralgica ha prodotto il piccolo risultato di zero palle gol e zero parate di Alisson. Rinunciando alla posizione centrale di Eriksen il Tottenham ha confermato che per vincere la coppa occorra saper leggere la storia, anche la propria: a un principe non si toglie il trono mentre sta diventando re.

Il Tottenham ha fatto comunque una grandissima campagna europea e il prossimo anno ci tornerà più ricco di esperienza e di forza, da vince campione d’Europa. Non male per chi aveva un punto dopo tre partite.

 

 

 

 

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