La corsa all’oro dei pionieri dello scudetto

Posted By on Ott 17, 2019 | 0 comments


Di Matteo Quaglini

Due quinquenni d’oro fatti di scudetti consecutivi, è questa la firma della Juventus Football Club e della Panini Modena (oggi Modena Volley) sul libro mastro della vittoria. L’uno a cinquantaquattro anni dall’altro. La Juventus di Edoardo Agnelli inaugura la sua leggenda a partire dal secondo campionato a girone unico di serie A, la stagione 1930-1931. L’altra, l’alterego pallavolistico del sogno voluto dagli Agnelli, vincerà i suoi quattro scudetti consecutivi dalla stagione ’85-’86 a quella ’88-’89. In comune hanno avuto la lunga scia di trionfi, la scelta degli allenatori, la tenacia di taluni avversari nel perseverare lo scontro, la capacità di saper superare sconfitte che avrebbero potuto rimettere tutto in discussione, i tanti nazionali alfieri delle vittorie da squadra dura, le vittorie oltre quota cento laddove nemmeno le aquile – citando uno storico film – sanno volare.

Tutto però iniziò da due sconfitte, perché come dicono le massime orientali bisogna imparare a darsi tempo prima di spiccare il volo. Alla fine del 1930, l’anno d’esordio del campionato a girone unico come oggi lo conosciamo, la Juventus è terza: l’Ambrosiana Inter di Peppino Meazza l’ha battuta.

C’è una profonda differenza tra le due squadre. Prima di tutto l’allenatore, che uno slogan errato del calcio vuole poco rilevante nell’economia di una squadra, da una parte guida la truppa dell’Ambrosiana l’ungherese Arpad Weisz uno che conosce e riconosce il calcio di qualità, dall’altra c’è George Aitken che vuole trapiantare il verbo del Sistema di Chapman nell’Italia del Metodo. Troppo affrettata l’idea di un travaso “inglese” in un calcio italiano che eleva a tattica suprema il Metodo, papà del contropiede moderno. Non funziona e la Juventus cambia inaugurando la filosofia degli allenatori italiani che radicalizzerà (Deschamps a parte nel 2006) dal 1974 in poi. D’altro canto anche per i pionieri come lo scozzese Aitken ci vuole tempo, saranno anni dopo il Grande Torino e Arrigo Sacchi a portare la rivoluzione a casa nostra.

L’altra differenza fu Meazza, “el folber”per dirla con Gianni Brera, lo Jacques Le Goff del giornalismo calcistico. El Pepin magrolino, ma robusto nelle gambe segnò 31 gol lasciando a vent’anni il segno dei grandi, perché il talento michelangiolesco e raffaelliano non ha età.

E a Modena, cosa accadeva nel 1985? Anche qui una storia di successo inizia dalla spada di Damocle della sconfitta, un pendolo alla Edgard Allan Poe. La Tarantini Bologna sorprende i favoriti modenesi e li batte come un altro grandioso Bologna fece nel 1964 in un pomeriggio romano, con l’Inter da poco campione d’Europa. Il manifesto simbolo della sconfitta delle sconfitte fu un time-out in cui l’allenatore Nannini (ex gloria della Panini sul campo) cercò di spiegare che tattica adottare, ma nessuno dei giocatori lo stette a sentire. Tutti parlavano in un acropoli di pensieri tecnico-tattici confusi e nessuno ascoltava le parole dell’allenatore.

Dall’allenatore ripartirono dunque Edoardo Agnelli e Giuseppe Panini, ingaggiando Carlo Carcano e Julio Velasco. Erano due neofiti, ma avevano talento e idee. Quando arriva alla Juventus Carcano è il rappresentante massimo della scuola Alessandrina e imposta la squadra sul metodo: vince subito lo scudetto conducendo la danza dalla terza di campionato, la Roma è seconda a 4 punti. Qualcosa però nella mente di Carcano, va cambiato. Nell’estate del ’31, quando i favolosi e controversi anni ’30 hanno già visto la loro genesi, acquista due mediani: il combattivo Luis Monti l’unico in grado di rivaleggiare in forza guerresca con Attilio Ferraris IV, il leone di Highbury. Insieme all’argentino arriva Bertolini, l’equilibratore. Con questi due giocatori la Juventus diverrà granitica al centro del campo e potrà scatenarsi in avanti con un altro acquisto voluto, nel ’32 da Carcano, Felicino Borel II il centravanti in grado di sfidare perfino un dioscuro immaginifico come Meazza.

E Velasco a Modena? Quando l’argentino arriva nell’università della pallavolo italiana per sua stessa ammissione non ha il curriculm per allenare la Juventus della pallavolo. Però ha idee e carisma da vendere. Di fronte a Piero Peia, che è come andare a colloquio con Lorenzo il Magnifico, parla di come ricostruire la squadra e conquista subito la posizione di capo allenatore.

In una squadra avvilita dalla sconfitta con Bologna e incapace di vincere il titolo da dieci lunghi anni, Velasco introduce il decalogo che lo renderà famoso in tutto il mondo: allenamenti doppi, competenza, preparazione fisica accurata, centralità sulla forza per garantirsi l’attacco, capacità di superare gli ostacoli.

I giocatori sono sorpresi, un reazione che avranno anche Baresi e Ancelotti nel Milan di Sacchi. In una delle prime riunioni Velasco dice chiaro: “ci alleneremo per tre ore al giorno e due volte a settimana mattina e pomeriggio” è l’eresia del novizio che entra nel monastero cluniacense o benedettino e vuole cambiare i precetti costituiti. Il capitano di Modena si alza e risponde: “non possiamo allenarci tre ore, non si regge la concentrazione”, al che l’allenatore giovane che ha vissuto sulla propria pelle la storia argentina dei Desaparecidos, che ha studiato filosofia e che conosce la pallavolo, controreplica: “Quanto dura una partita di cinque set ?” e l’altro: “tre ore e qualcosa in più”, l’assist con il quale Velasco può dire: “come facciamo con la concentrazione?”, dopo il silenzio della vittoria Velasco concluse: “alleneremo per tre ore allora”. Li, in quel dialogo nato per stabilire il liderato come lo chiamano gli ispanofoni, nacque la figura carismatica di Velasco a Modena e gente navigata come Bertoli, Dall’Olio, Lucchetta, Bernardi, Ghiretti, Cantagalli e Quiroga divennero suoi pretoriani. Lo stesso effetto che ha fatto, ai giorni nostri, Mourinho per i suoi giocatori da vecchia guardia napoleonica.

Trovati gli allenatori e costruite le squadre bisognava confrontarsi con gli avversari: il Bologna che tremare il mondo fa e l’Ambrosia Inter per la Juventus, la Maxicono Parma dell’ossessivo Giampaolo Montali per la Panini. Fu una lotta dura, serrata, campale, intrisa di pathos. La Juventus e la Panini Modena furono più forti in un dettaglio che porta gli uomini e le squadre a valicare il sottile confine che c’è tra la vittoria e la sconfitta: la capacità di superare gli ostacoli.

Nel 1986 la Panini batté la Tarantini Bologna riprendendosi lo scudetto perduto e vincendo il personale lupo con cui ciascuno di noi si deve confrontare per superare l’ostacolo. Venne così l’epopea delle sfide con Parma capaci di arroventare, a colpi di giocate da campioni, la via Emilia. Il percorso di Juventus e Modena fu identico, quasi una reincarnazione delle vicende degli uni negli altri.

Dopo gli scudetti del ’31 e del ’86 da uomini soli al comando, si accese la lotta. Nel campionato 1931-32 la Juventus insegue il fortissimo Bologna in testa per 25 lunghe partite. Al 26° turno la Juventus guidata da Cesarini e Orsi vince con la Triestina, mentre il Bologna cade all’Arena di Milano 4-3 contro l’Inter. E’ la “fuga per la vittoria” juventina.

Questa capacità di rovesciare gli eventi seguendoli passo passo per poi cogliere “l’attimo fuggente” ha narrato le vittorie più antologiche dei trionfi juventini e modenesi. Per vincere il secondo scudetto Modena, nel 1987, dovette superare la tenacia di Parma e delle sue continue rimonte da 1-0 a 1-1, di nuovo avanti 2-1 Lucchetta e compagni e di nuovo 2-2 grazie alle martellate di Zorzi. Un equilibrio estenuante fino a gara 5 vinta 3-0 dalla Panini tutta italiana sulla Maxicono dei campioni internazionali e dei giovani talenti alla Giani.

Una vittoria che fece passare Modena per la porta dello “stargate” dei mondi sportivi paralleli, tanto era simile al successo della Juventus tutta italiana di dieci anni prima, nel 1977. Fu simile anche alla vittoria dei tre volte campioni d’Italia, della serie A ’33-’34. Identica per la tenacia, la voglia di ottenerla a tutti i costi. In quell’anno, per una volta, la Juventus non era in testa dall’inizio.

C’era l’Ambrosiana Inter al comando, dalla quarta alla ventottesima senza soste, senza pause, con Meazza ancora pronto a battere i portieri avversari. Trenta domeniche, trenta lunghe domeniche per aspettare sulla riva del fiume, con la pazienza del saggio orientale, il momento in cui il corpo del nemico passa sfinito da tanto sforzo. L’Inter impattò 0-0 con la Roma e la Juventus di nuovo in testa

tagliò il traguardo alla Tazio Nuvolari.

Nel teatro arriva però a un certo punto il momento di calare il sipario. E’ una legge che riguarda tutti, comparse e primi attori. Così nel 1935 e nel 1989, il passo dei mattatori alla Gassman, si fece più lento e vulnerabile, lo spettacolo stava per terminare: Carcano venne allontanato per ragione extra calcistiche, la squadra fu dietro per diciotto partite alla Fiorentina, prese il comando intorno al 22° turno ma poi lo cedette di nuovo. Anche Modena si trovò sotto, per la prima volta, 1-0 contro Parma nell’ultima finale con Velasco in panchina.

Ma i mattatori si sa hanno sette vite come i gatti. Sia la Juventus che la Panini agguantarono la quinta e la quarta vittoria, quelle che come accadrà ai Chicago Bulls, al Barcellona di Cruijff, al Milan di Sacchi e Capello, ai Lakers di Phil Jackson, al Real Madrid di Di Stefano e Ronaldo, al Brasile di Pelé, daranno l’immortalità sportiva.

Gli ultimi attori della Juventus furono: Valinasso in porta, Rosetta e Foni terzini, Varglien I, Luis Monti e Bertolini mediani, Cesarini e Ferrari 8 e 10, Varglien II, Borell II e Mumo Orsi col numero 11 all’ala sinistra. Cinque volte campioni capaci di diventare forti all’interno come fecero i maestri di Palazzo carolingi nella Gallia medievale o le casate di Castiglia e Aragona che dettero vita alla Spagna che avrebbe vissuto il secolo d’oro. Una volta forti e consapevoli hanno potuto, come teorizzava Carlo VIII re di Francia all’epoca delle guerre d’Italia, vincere uscendo fuori e diventare mito, squadre da 100 vittorie (102 la Panini, 115 la Juventus del quinquennio).

Dei cercatori d’oro sono stati i cavalieri di Modena dell’ultima vittoria dell’impero velaschiano: Vullo in palleggio, Cantagalli opposto e terzo martello al contempo, Lucchetta e l’americano Partie centrali, Bertoli e Bernardi a recitare il ruolo che fu di Borel II e Mumo Orsi. Grandi e invincibili tutti. La loro non c’è dubbio è stata una corsa all’oro memorabile.

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