La grande coppa di Juve e Modena

Posted By on Nov 1, 2019 | 0 comments


Di Matteo Quaglini

L’origine del mito ha avuto cuore francese e anima cosmopolita. Nacque nel 1954 in Francia da un’idea dell’Equipe, il prestigioso giornale sportivo che attraverso il giornalista Gabriel Hanot propone un campionato europeo per club che mettesse di fronte i campioni nazionali di tutti i paesi del vecchio continente, per vedere alla fine chi fosse il più grande. Il campione dei campioni. Roba alla Mohamed Ali, alla John Mc Enroe, alla Bjorn Borg, alla Eddy Merckx, tutti fuoriclasse che nei loro Pantheon sportivi hanno sfidato altri campionissimi per decidere chi fosse il re della tavola rotonda.

L’idea entusiasmò subito tutti tant’è che anche la pallavolo si accodò poco dopo, nel 1959-60, con la prima edizione della Coppa dei Campioni. Il trofeo massimo conquistato il quale non esiste più sconfitta che possa scalfire l’onore di una squadra. E’ questo, infatti, un mito nel mito universale della coppa dalle grandi orecchie: la gloria imperitura.

Il Nottingham Forest due volte campione d’Europa nel ’79 e nel 1980 è forse l’esempio più chiaro di questa narrazione mitologica della coppa dei sogni. In serie B inglese per alcuni anni, sale in First Division con Brian Clough nel 1977 vince il campionato l’anno dopo e poi è due volte campione dei campioni. Una statua all’allenatore più grande d’Inghilterra insieme a Bob Paisley e Bill Shankly, due vittorie che nessuno può cancellare, il ricordo di grandi battaglie campali contro nomi sacri alla Real Madrid intraprese con lo stesso ardore degli scozzesi di Braveheart per l’indipendenza della Scozia dal giogo del re Plantageneto, tutto questo ha dato il mito della Coppa dei Campioni agli eredi di Robin Hood.

Un mito che ha narrato l’eroica di squadre diventate grandi grazie alle imprese in coppa: il Real Madrid è tale non per i 33 campionati spagnoli, ma per le “noches magicas” di Di Stefano, Puskas, Hugo Sanchez e Cristiano Ronaldo. Il Bayern Monaco nasce come squadra che eredita l’autorevolezza dei Cavalieri Teutonici, nel triennio ’74-’76 quando batte in finale Atletico Madrid, Leeds United e Saint Etienne tenendo la corona dei più forti nel suo cuore bavarese. Il Barcellona può iniziare a esportare la sua idea di calcio associativo dopo Wembley ’92, non prima. Il Liverpool prima modesta squadra di Second Division con la sua spavalda altezzosità tutta britannica mostrata soprattutto in tante vittorie corsare fuori casa, è diventato il grande blocco della Red Army. La squadra che non camminerà mai sola.

La Coppa dei Campioni è un mito cosmogonico capace di descrivere l’origine delle grandi squadre. Uno studio sulla rotazione dei pianeti dell’universo calcistico e pallavolistico, come facevano gli Aztechi prima che arrivasse Cortes col suo moderno primitivismo. La finale vinta è l’iniziazione al mito, come accadde per Inter e Milan. La Grande Inter di Herrera, Corso, Mazzola, della difesa euromondiale, è tutta nel Prater di Vienna e nella San Siro gremita dell’anno successivo, il 1965, a celebrare le vittorie su Real e Benfica. Anche il Milan deve alla coppa dalle grandi orecchie la sua gloria. Grazie alle campagne condotte da Liedholm, Altafini, Rivera, Rocco, Van Basten, Gullit, Sacchi, Baresi, Maldini e Capello, il Milan è diventato il club italiano più vincente in Europa e ha raccontato il mito degli eroi anche nelle sconfitte più cocenti, ma romantiche.

Per questo anche nella sconfitta a volte nasce, in Coppa dei Campioni, il mito. E’ l’esaltazione del tentativo eroico, e d’altronde se così non fosse stato nelle sconfitte del Milan ’58 contro il magno Real o del 2005 contro la Red Army dei liverpooloniani per dirla con Brera, non sarebbe esistito il mito della “Chanson de Roland” che racconta di una epica sconfitta in una delle battaglie di retroguardia più famose e romanzate della storia.

Quando la Juventus si affaccia, nel 1958, alla prima partita di Coppa Campioni della storia contro gli austriaci del Wiener Sport-Club, ha dentro i tunnel di Omar Sivori, le geometrie di Boniperti, la potenza di Sir John Charles, questi miti dell’anima. Guarda il Real e sogna di emularlo. Sarà fino ad oggi sempre così. La stessa ossessione per la vittoria che, dagli anni ’80, cominciò ad entrare nel cuore della Panini Modena che come la Juventus aveva vinto già in campo internazionale, la coppa

Uefa i torinesi e la Coppa delle Coppe e la Coppa Cev i modenesi, ma sentiva dentro di se la necessità di afferrare quella più grande per entrare nel mito dell’oro altra declinazione del sogno dei grandi.

Quando nell’estate del 1972 Italo Allodi, manager della rinnovata Juventus bonipertiana, acquista Dino Zoff e Josè Altafini dal Napoli dichiara alla stampa che lo interroga che con questi due campioni la Juventus può puntare a raggiungere e vincere l’agognato trofeo che la porterebbe a camminare sulla stessa strada del Real, ma anche di Milan e Inter gli eterni rivali nazionali. La Juventus ha già fatto molti tentativi in coppa, tutti falliti. Eravamo rimasti alla Vienna del 1958, la capitale della cultura europea, li la Juventus della stella perde 7-0 e esce dalla coppa tra la tristezza generale. Paga per tutti l’allenatore jugoslavo Brocic che viene esonerato, ma non è un uomo che può spostare gli equilibri occorre una mentalità. La successiva trasferta a Sofia contro il Cska nel 1960 produce un’altra sconfitta per 4-1 mentre il Benfica è il nuovo che avanza a scalzare il Real dei “Caudillos”.

Nel 1962 arriva proprio lo scontro con il Real è il mito teogonico della coppa, quello che narra l’origine degli dei. Per la Juventus che sogna di essere il nuovo Madrid è il massimo delle aspirazioni. Dopo la vittoria per 1-0 in Spagna sembra fatta, ma i mammasantissima si sa hanno sempre una freccia in più degli altri da scagliare. A Torino, i marescales eredi del “Siglio de Oro” vincono 3-1 e il mito della Juventus nella grande coppa è ancora una volta eziologico, raccontando ciò solo le cause di una realtà segnata da sconfitte e dalle loro cause.

Un inizio nella narrazione della coppa che vivrà anche la Panini Modena di Julio Velasco e dei suoi pretoriani immaginifici. Nella pallavolo il Real Madrid, cioè la squadra mito per definizione a cui tutti guardano, è stata per anni il Cska Mosca l’armata rossa del gioco della palla in aria. Invincibili, precisi, duri, cannibaleschi nel loro non concedere set nemmeno quelli che avrebbero significato solo il punto della bandiera per gli avversari. Orsi russi della nazionale di pallavolo più forte di tutti prima della Generazione dei Fenomeni di Don Julio, dal cuore moscovita.

Il Cska interpretava le partite come Alessandro I e Stalin interpretarono la guerra all’invasore napoleonico e tedesco, tenendo cioè inflessibili i principi di resistenza e di assoluta fede nella possibilità, una volta fatto entrare il nemico sul proprio territorio, di vincere ribaltando il fronte. Così la Panini Modena due volte campione d’Italia cedette ai russi nel girone di finale 1987 in Olanda a Hertogenbosh e nel 1988 perdendo 3-0 contro il meglio della pallavolo sovietica, che giocava ancora sicura di se stessa anche se sotto i piedi qualcosa cominciava a scricchiolare all’interno del Cremlino e all’esterno dei confini.

Nella narrazione della Coppa dei Campioni c’è anche il mito della vittoria quasi raggiunta: i cavalieri erranti che vanno alla scontro con i campioni in carica. Un passaggio inevitabile, quasi di iniziazione, per creare gli anticorpi necessari a vincere un giorno il lupo e la coppa. Ma nel 1973 e nel 1989 Ajax e Cska Mosca sono ancora un lupo vorace e dagli occhi infuocati per essere battuti da Juventus e Modena.

Il machiavellico Italo Allodi aveva ragione in quell’estate del 1972 a profetizzare una Juventus possibile finalista. Il mito della coppa è il mito del viaggio. In quella campagna in giro per l’Europa la Juventus della meglio gioventù da Capello a Spinosi a Bettega passò indenne le grinfie della Marsiglia portuale e gotica, della Magdeburgo città simbolo della Germania Est, della Budapest illusoria e potenzialmente trappola tesa dall’Ujpest, e grazie all’esperienza di Zoff e allo spirito di lotta del piccolo palermitano Giuseppe Furino uscì con uno 0-0 da Derby che valeva la finale.

A Belgrado, la città dove persino Agatha Christie fece bloccare l’Oriente Express, l’Ajax del profeta del gol era più forte e vinse 1-0. La Juventus ebbe occasioni ma le fallì per la paura che a volte prende e rende molli le gambe, anche quelle di grandi campioni.

I grandi campioni che con la maglia gialla di Modena, nella primavera del 1989, sono avanti 1 set a 0 nella finale di Atene contro l’orso russo che non vuole proprio saperne di abdicare il trono. Julio Velasco e i suoi hanno vinto tutte le partite, solo il primo turno ha necessitato l’appello alla forza mentale e alla capacità di reazione che l’argentino vuole anche da campionissimi come Vullo e Lucchetta. A Cracovia i polacchi hanno vinto 3-0, sembra impossibile ribaltare e pure il mito della rimonta si concretizza in un palazzetto modenese stracolmo.

I russi però la regola del non mollare mai la conoscono bene e ribaltano vincendo per 3-1 è l’ultima volta sul pennone più alto, tra poco il promontorio della vittoria sarà di Modena. Arriveranno, infatti, le vittorie del ’90 e del ’96 contro i leoni di sempre Cska e Ajax e sarà per Modena e Juventus il mito degli eroi, come se fossero personaggi della Grecia antica. Il viaggio continuerà con 6 vittorie totali nella grande coppa, due della Juventus e quattro di Modena. Non mancheranno i momenti dolorosi, le sconfitte cocenti dopo un cammino da imbattuti, i viaggi in città storiche che segneranno la difficoltà di vincere la Coppa, ma tutto contribuirà a raccontare nelle grandi vittorie così come nelle grandi sconfitte di Juventus e Modena, il mito dell’eterna giovinezza esemplificato nel sogno di alzare la Coppa dei Campioni.

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