Xavi e Kim Ho Chul, registi da premio oscar

Posted By on Dic 11, 2019 | 0 comments


Di Matteo Quaglini

Se avessero fatto i registi avrebbero vinto l’Oscar, nel cinema. Uno Xavi, avrebbe alimentato la filmografia di Pedro Almodóvar, l’altro Kim si sarebbe ritagliato uno spazio di prima grandezza nel vasto universo culturale della cinematografia asiatica e orientale. Sarebbero stati grandissimi esattamente come lo sono stati sul campo da calcio e sul parquet della pallavolo.

Due registi veri e sapienti. Due catalizzatori del gioco capaci di aprirlo dandogli il respiro della libertà che vale l’azione che scompagina gli avversari e da il punto o il passaggio gol della vittoria. Due pensatori del gioco, che come i cineasti dietro la macchina da presa, vedono dipanarsi una sequenza dopo l’altra tutto il film che hanno in testa da prima che l’aiuto regista batta il ciak o che l’arbitro fischi l’inizio della partita.

Lo spagnolo e il coreano sono stati due dei più grandi registi dei giochi di squadra di tutti i tempi. Insieme, con tecniche e movimenti diversi, hanno dato alterigia e magnificenza al ruolo del playmaker: il costruttore del gioco altrui. Un pallone dopo l’altro hanno organizzato le trame delle azioni dei compagni, li hanno mandati a punto o in gol e al contempo gli hanno aperto varchi solo un momento prima chiusi dai duri difensori che pensavano solo a distruggere mentre l’arte è da sempre nei millenni dell’uomo, quella di costruire.

Il principio del loro gioco l’ha spiegato, vent’anni fa o giù di li, il coreano dal viso imperturbabile come quello dei samurai: “Il palleggiatore deve sempre ricordare e memorizzare, deve appuntare tutte le caratteristiche dei compagni e degli avversari”. Il piccolo Kim Ho Chul fin dai tempi dell’università viaggiava con un blocchetto dove appuntava tutto, dalle caratteristiche dei compagni a quelle degli avversari temibili e non, dai metodi di allenamento alle tecniche. Così, cresciuto come un amanuense divenne uno dei più grandi nel vedere il gioco, nel prevederlo come di fatto ricorda la sua massima, nell’indirizzarlo ipnotizzando il muro avversario e indicando la strada ai compagni.

Quando Kim Ho Chul venne in Italia, nel 1981, il Torino di Silvano Prandi dominava il campionato emulando il tremendismo di quello di Gigi Radice e trovando in Piero Rebaudengo e Gianni Lanfranco i suoi Pulici e Graziani, la coppia gol che nel 1976 vinse lo scudetto davanti alla Juventus di Giampiero Boniperti. Era un dominio che sconvolgeva le vecchie gerarchie della pallavolo italiana, architrave ancorata sui pilastri di città che vivevano e respiravano per la palla in aria, da una parte Parma e Firenze, dall’altra Ravenna e Modena. Si trattava di un’egemonia che non rappresentava il fascino di un bagliore straordinario ma effimero come furono le vittorie dell’Ariccia e della FederLazio, no a Torino c’era un’idea di vittoria negli anni esattamente come Ferruccio Novo l’aveva pensata trent’anni prima per il suo immaginifico Grande Torino.

Mentre nel calcio la Juventus di Trapattoni e della formazione tutta italiana rivinse subito lo scudetto perduto, nella pallavolo il Torino incontrò nel maggio del 1982 il piccolo-grande studente universitario diventato nel frattempo il palleggiatore dei “120 schemi”. Cento e più combinazioni d’attacco, centoventi modi diversi di chiamare i suoi attaccanti alla schiacciata, cento e oltre inquadrature del film della sua partita per mandare al tappeto le veloci di Dametto, le martellate di mano di pietra Franco Bertoli, le tattiche scientifiche del Professor Prandi.

Vinse due scudetti, nel 1982 e nell’anno 83, Kim Ho Chul con la Santal Parma che era la sua squadra. Li vinse alla stessa maniera perdendo la prima partita e poi rimontando. La vittoria era quella di un regista dalla visione a lunga gettata, non immediato alla Kubrick ma attento ai dettagli alla Sergio Leone, pieno di talento alla Roman Polanski per raccontare tutti i passaggi di una partita decisiva, visionario di qualcosa che c’era e che gli altri non vedevano ma che soltanto lui aveva saputo cogliere, alla Federico Fellini.

Questa idea del gioco fondata sull’esaltazione della costruzione come stella polare della squadra è la stessa che Xavi perseguirà per tutti i suoi diciassette anni al Barcellona. Lo spagnolo controllava il gioco attraverso il possesso palla o meglio la sua radicalizzazione. Il vecchio passing game inventato dagli scozzesi negli anni ’90 dell’800 esaltato a livello di religione, di ideologia, di fede incrollabile: “Moriremo con la nostra idea di gioco” disse il capitano della squadra della “Decada

d’Oro” prima della semifinale di ritorno con il Bayern Monaco al Camp Nou nell’aprile del 2013. Nonostante Messi non giocasse, nonostante il Barcellona partisse dallo 0-4 di Monaco di Baviera il demiurgo del fraseggio rasoterra, il sacerdote del tocco continuo ed ipnotico, continuava a professare tra gli eretici del Dio pallone assertori del gioco verticale e del contropiede la sua fede nella religione che lo aveva fatto grande tra i grandi registi della nostra epoca pallonara.

Questa fede nel tocco ripetuto migliaia di volte, magnificata dai 139 passaggi consecutivi eseguiti senza mai sbagliare dal regista catalano in Spagna-Irlanda europeo 2008, è l’equivalente dei “120 schemi”del regista coreano. Il mantra di due menti pensanti che non cercavano la ripetizione noiosa di un copione ma il varco da aprire passando a destra, a sinistra, al centro, cambiando il fronte più di una volta, ritornando a martellare zone già battute fino a rompere l’equilibro delle posizioni difensive altrui, esattamente come faceva l’armee napoleonica.

Ci sono state molte partite memorabili nella carriera di Xavi e Kim Ho Chul, e poche anzi pochissime sconfitte. Tra i 25 trofei, gli 85 gol segnati, le 767 presenze con gli alzugrana eredi degli aragonesi, le medaglie appuntate sul petto dell’Hidalgo Xavi sono quattro: i cinque gol di un Barcellona-Real Madrid storico, nel novembre 2011, che alimentò la rivalità tra gli spagnoli che pensano castigliano e amano l’entroterra, e quelli che guardano al mare avamposto delle loro imprese passate. Le finali della Champions contro il Manchester United di Sir Alex Ferguson a togliere il ritmo agli inglesi o quella vinta sulla Juventus della tecnica sublime di Pirlo e dell’aggressività da “barrio” di Tevez. Tre vittorie più novecentesche che degli anni duemila, ottenute cioè imponendo un’idea su altre idee: un confronto tra scuole calcistiche opposte, degne del secolo breve di noltiana memoria.

Nei trionfi, una parola cara agli spagnoli che ragionano come Filippo II, di Kim Ho Chul non c’è stata ideologia dello sport, ma un’altra cultura capace di infondere coraggio, d’insegnare un gioco nuovo. Così nacque la vittoria della Santal Parma nella Coppa dei Campioni 1984. Quando Kim e i suoi compagni si ritrovarono sotto nel punteggio a Sofia contro il Cska nella gara di ritorno, il samurai che era nel piccolo coreano venne fuori e piano piano cominciò a contare i punti che servivano per vincere con il quoziente set, finì 3-1 per i bulgari che quando decidono di giocare sono come gli alfieri dello Zar Simeone, mito della loro storia, indomabili.

Il grande regista portò fuori dalle secche la nave parmense con la mentalità propria dell’Oriente, la forza interiore. Furono, poi, sei vittorie fino al successo finale contro gli jugoslavi dell’Haok Mladost. La legge del samurai si era imposta, Kim era come il maestro Miaghi: l’uomo che ti insegna la pallavolo mentre tu non te ne accorgi. Ma lo sport non sarebbe tale se ci fossero solo trionfi nella lunga strada di campi e palestre.

Venne il tempo anche per Kim Ho Chul e Xavi di qualche sconfitta che avvilisce forse, ma non scalfisce il credo nella propria sapienza. L’Olanda-Spagna del 2014 fu una partita di confine che segnò la fine della grande squadra campione d’Europa e del mondo. Nel primo tempo Xavi comandava costruendo la solita fitta e avvolgente rete di passaggi, poi fu il tempo del contropiede. E l’Olanda vinse ponendo fine a un’idea che da allora è rimasta per sempre ma è una religione tra le altre non più dogma assoluto.

La delusione di Kim Ho Chul arrivò quando sedeva sulla panchina della Sisley Treviso la squadra dei tre cavalieri dell’apocalisse azzurra come vennero definiti Tofoli, Gardini, Bernardi. Perse scudetto e Coppa Campioni e rimase seduto sulla panchina con una gamba sull’altra a pensare, era una grande espressione del dolore interiore e significava non essere riuscito a far vedere ai giocatori la partita che aveva in mente, le azioni che si sarebbero dovute giocare, i gesti tecnici che effettuati in un certo modo avrebbero portato alla vittoria. La sconfitta massima per un samurai.

Sia Kim Ho Chul che Xavi tornarono a vincere in ossequio all’idea che aveva Mohamed Alì del campione che si rialza. Arrivarono gli scudetti con lo Hyundai Skywalkers a ricordare le giornate di festa e vittorie della sua gioventù coreana, mentre per Xavi ci fu il momento di vincere campionato, Coppa Campioni e Coppa di Spagna nel ruolo del vecchio saggio che entrando dalla panchina girava ancora da premio Oscar il lungometraggio del gioco corto.

Sia l’uno che l’altro hanno avuto molto in comune. Entrambi dal nome lungo in segno quasi di una nobiltà del pensiero: Xavi Hernandez Creus e Kim Ho Chul. Tutti e due piccolini. Tutti e due

cerebrali. Tutti e due, oggi, allenatori in mondo differente dal vecchio Occidente. L’Al-Sadd è la squadra che Xavi allena, l’ultima in cui ha giocato. La nazionale di pallavolo della Corea del Sud è quella che Kim Ho Chul dirige da due anni a questa parte. Per lo spagnolo si tratta di un primo apprendistato prima dell’investitura reale sul trono della Catalogna barcellonista, per il coreano è il ritorno a casa a spiegare pallavolo ai giovani coreani che si tuffano in difesa, attaccano e alzano col suo mito nel cuore.

Tanto Xavi che Kim sono stati due campionissimi, un aggettivo che ha magnificato pochi anche tra i campioni più grandi. La loro carriera prosegue in panchina: un posto ancora per pensare, un posto ancora per vedere il gioco, un luogo per girare il film della loro pallavolo veloce e combinata o del loro calcio corto. Una panchina per insegnare a vincere le difficoltà prima di tutto, esattamente come fecero con loro i due mentori Josep Guardiola e Nerio Zanetti nella Schio terza squadra italiana di Kim. Due assi tra gli allenatori, che dettero a Xavi e Kim Ho Chul la cattedra di professori presso le loro squadre.

Due grandi registi da premio Oscar, per i loro lungometraggi in cui hanno costruito il gioco, in cui hanno pensato per gli altri, in cui hanno portato vittorie e aperto strade mai battute prima anche quando sembrava impossibile. Come quando, Kim Ho Chul affrontò nella semifinale del mondiale italiano ’78 l’Urss in semifinale. Vinsero i sovietici, ma di fronte ai “120 schemi” del piccolo samurai anche i campioni della più grande squadra a muro della storia della pallavolo andarono in difficoltà nell’intuire traiettorie che solo Kim vedeva. Un grande regista in fondo è un uomo che mentre gira una sequenza già sta pensando al suo seguito, che sia spagnolo o coreano non fa differenza.

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