1978, vola un gabbiano d’argento

Posted By on Gen 1, 2020 | 0 comments


Di Matteo Quaglini

Il 1978 è stato per le nazionali di calcio e pallavolo italiane, l’anno dell’avanguardia. La pallavolo azzurra in trentadue anni di attività, aveva ottenuto fin lì solo il terzo posto dell’Europeo del 1948 e l’oro alle Universiadi del ’70 l’anno dei mondiali messicani di Pelé. Troppo poco per un movimento che ammirava da lontano la classe pura delle squadre dell’Europa dell’Est con l’Unione Sovietica a vivere nel mito, su tutte.

Il calcio viveva anch’esso un momento storico complesso. In campionato Milano arrancava, l’ultimo scudetto della città, motore economico del paese, era del 1971 quando l’Inter della vecchia guardia herreriana vinse con quattro punti di vantaggio sul Milan di sua maestà Rivera e del Paron Nereo Rocco, poi sette anni di camminate nel deserto a veder vincere la Juventus di Giampiero Boniperti.

Già la Juventus, sempre la Juventus a determinare il ritmo. Cinque scudetti nei turbolenti e terrorizzanti anni ’70 italiani. C’erano anche grandi avversari il Cagliari di Riva, la Lazio della banda Maestrelli, il Torino del doppio centravanti Pulici-Graziani, squadre forti ma in breve tempo dimostratesi fragili nel tenere il passo dei vincenti per antonomasia.

In quel ’78 carico di gotici e tragici momenti sociali erano già tutte fuori dalla lotta scudetto. La Lazio stazionava a metà classifica vinta da eventi tristi e neri e con il suo capo carismatico Giorgio Chinaglia a New York nella legione straniera dei Cosmos. Il Cagliari senza più Riva era in serie B e il Torino seppur terzo alla fine del campionato guardava la Juventus con 5 punti di ritardo, che nella serie A a due punti significava un’eternità. In Europa avevamo fatto sei finali, vincendone solo una.

E la nazionale? Eravamo usciti male al mondiale in Germania quattro anni prima, battuti da Lato e la sua Polonia di campioni e dalle lotte interne al clan azzurro, non avevamo partecipato alla fase finale dell’europeo ’76 e una bordata di fischi aveva fatto da cornice alla pochezza del gioco offerto a Roma contro la Jugoslavia nell’ultima partita prima di imbarcarci per l’Argentina. Una situazione da calma piatta allarmante.

La stessa crisi di identità della pallavolo azzurra del resto: a cento giorni dal Mondiale non avevamo l’allenatore. Dopo Italia-Filandia 1-3 del 25 settembre 1976 il Prof. Franco Anderlini, il Rocco della palla in aria, era andato via dalla nazionale sostituito da Adriano Pavlica ma solo, per suo volere, per l’europeo ’77. In più Sigismund Grigoliunovic tre volte campione in Europa con il Radiotechnik Riga da prima aveva accettato poi su pressione della Federazione russa aveva declinato, come Fedotov. Una serie di rinunce incredibili a cui si sommava quella di Skorek infastidito dalla disorganizzazione snervante della Federazione.

Come affrontare un mondiale che mai ci aveva visto protagonisti sotto rete, con simili premesse? E con quale spirito correre sui verdi prati della pampa calcistica d’Argentina? Eravamo a tutti gli effetti degli outsider puri e pieni di grosse incognite. Nel calcio eravamo visti come i vecchi eretici che credevano nel catenaccio, mentre olandesi, tedeschi e inglesi dominavano la scena portando tanti giocatori nella metà campo avversaria. Nella pallavolo semplicemente non avevamo cittadinanza tecnica, confinati all’8° posto in Europa e al 19° nel mondo. Così quando Carmelo Pittera, trentaquattrenne siciliano, accetta la guida della nazionale sembrano i cento giorni di Napoleone e già ci si chiede quale sarà la Sant’Elena dell’allenatore campione d’Italia con la Paoletti Catania.

Pronti via e Don Carmelo sconquassa la pallavolo italiana. Nel giorno delle convocazioni esclude Mattioli e Salemme della Feder Lazio e Montorsi e Sibani della Panini Modena, che è come se Ferruccio Valcareggi al mondiale messicano non avesse convocato Riva, Rivera, Boninsegna e Mazzola. Le critiche fioccano e il commissario tecnico vive giorni di tormento, ma tiene duro trovandosi in comunione con Bearzot. Così diversi Don Carmelo e il Vecio, uno siciliano e l’altro friulano, ma entrambi emotivi e testardi nel seguire la loro strada.

In Argentina, nella terra dei nostri avi che l’oscuro signore del male Videla controlla, Bearzot punta sul blocco della Juventus bi-campione d’Italia: Zoff in porta, Gentile che marca e spinge, Cabrini

che corre sulla fascia opposta ricordando Facchetti, Scirea a coordinare il reparto e ancora Benetti e Tardelli a fare legna in mezzo, Causio detto Brasil a inventare gioco e Bettega corsaro dell’area di rigore avversaria. Otto juventini su undici più un Paolo Rossi qualsiasi, ma già capocannoniere nella Lanerossi, il Real Vicenza. Non è ancora Pablito, la Spagna è di là da venire con i suoi suoni arrotati, la sua paella, il suo caldo afoso e guerresco delle giornate del Mayo de la Liberación da Napoleone e i suoi “franciosi”, ma la zampata è già quella che mette a terra Ungheria e Austria nazioni regine di un calcio che fu.

Il Paolo Rossi della nazionale di pallavolo è Gianni Lanfranco che gioca benissimo nella Klippan Torino incarnando anche il triumvirato del neo e ritrovato tremendismo granata, Paolino Pulici, Claudio Sala e Ciccio Graziani da Subiaco tutti presenti in Argentina. L’Italia raffazzonata dalla pallavolo incerta a forza di doppie sedute pitteriane ha battuto Belgio, Egitto e Cina catapultandosi tra le prime otto del mondo, Sant’Elena può aspettare. La squadra è fondata anche qui su un blocco, quello della Paoletti Catania: sono gli uomini di fiducia di Don Carmelo. Il capitano Nassi, il martello Scilipoti, la pulce dell’Etna Greco che entra in ricezione per puntellare la nostra seconda linea. Ci sono anche Alessandro e Concetti che si sacrificano in ingressi tattici di muro, chiamati a fermare attaccanti fortissimi per un solo pallone.

Pupo Dall’Olio palleggia ed è al tempo stesso l’Antognoni e il Causio di Bearzot. Giochiamo molte combinazioni avanti e in veloce dietro con Negri e Lanfranco, mentre Lazzeroni e Innocenti del Cus Pisa sono i nostri Zaccarelli d’Argentina e come il baffo granata entrano per il cambio tattico. La Francia di Platini e Tresor cade sotto il destro di Zac e il gol di Lacombe dopo quaranta secondi è un ricordo da vecchio impero che si sgretola. E’ il momento decisivo. Ci toccano Olanda e Cuba, cioè il meglio del calcio e della pallavolo mondiale a fine anni ’70.

La combinazione triangolata tra Bettega e Rossi ha portato penna bianca al gol che piega Ubaldo Matildo Fillol e il suo caudillo Passarella, l’Argentina dei marescales è battuta come il Brasile di Rajzman e William Da Silva in un quinto set drammatico per 17 a 15, Don Carmelo per la prima volta nel mondiale esulta braccia levate al cielo lanciando via la maschera dell’imperturbabilità. E’ il momento di galoppare.

Il 30 settembre 1978 affrontiamo al PalaEur di Roma, Cuba. Nessuno ci da per favoriti nonostante anche Germania Est e la Bulgaria dei fuoriclasse Zlatanov e Karov siano state eliminate. Come fermiamo Ernesto Martinez che salta un metro e trentacinque centimetri sopra la rete? Una domanda che si fanno anche gli azzurri a Buenos Aires, attacchiamo o stiamo ad aspettare – come mai abbiamo fatto in quel mondiale – l’arancia meccanica del gotico Happel?

Due semifinali epiche, dall’andamento diverso ma entrambe spartiacque per le nazionali che verranno. Dopo venti minuti di attacchi e occasioni fallite, Bettega costringe l’Olanda all’autogol siamo uno a zero vincendo alla loro maniera, attaccando. La fortuna ci ha ripagato dopo le tre traverse e i tre gol falliti davanti alla porta di un grande portiere come Sepp Maier nel più incredibile degli 0-0 con la Germania Ovest.

Nel primo set con Cuba dopo mezz’ora i caraibici sono 9-0, ma tra il pubblico non c’è sconforto si sa sono più forti e d’altronde Carmelo Pittera il giorno prima ha coniato una frase che diverrà storica e mitica : “La pallavolo è matematica e per battere Cuba due più due dovrebbe fare cinque”. Gli azzurri liberati da domande e paure iniziano a giocare e rimontano sul 9-9 del primo set l’urlo dei diciottomila aficionados sugli spalti è pietra miliare delle emozioni pallavolistiche di ogni tempo.

Perdiamo, ma siamo incredibilmente in partita. Cuba sente il fiato sul collo e va in apnea, l’allenatore Herrera toglie Ernesto Martinez, siamo avanti 2-1 e pareggiamo 12 pari nel quarto. Un pareggio a cui l’Olanda è arrivata con una fucilata del terzino Brandts che così riscatta l’autogol della possibile eliminazione. Sull’1-1 la partita gira, come quelle grandi battaglie di controgioco in cui gli attaccanti diventano difensori e i difensori si trasformano in pirati dei migliori arrembaggi.

Quando Haan bombarda Zoff da quaranta metri, si capisce perché l’Ajax in molte sue partite europee sceglieva di tirare da tutte le posizioni rinunciando ad azioni manovrate che pure sapeva portare alla massima completezza tecnica. Sul 2-1 per gli orange è finita. Non abbiamo più fiato e condizione fisica per reagire, dovremmo fare due gol per andare in finale. Troppo anche per i pluri decorati duchi juventini. L’Olanda con il suo gioco fin troppo fisico e intimidatorio ci toglie la finale

anche se noi abbiamo volato più di loro nel gioco, orfani com’erano del divino Cruijff. Sul 2-1 del PalaEur invece inizia il volo della nazionale di pallavolo. Quando Ernesto Martinez rientra siamo 14-12 con la battuta a nostro favore. Si batte ancora alla coreana, con il braccio basso che mulinella a mo di catapulta, il pallone in aria. La nostra battuta è lunga e Cuba va subito in affanno, la ricezione è difettosa e arriva alta e parabolica verso il nostro campo.

Diciottomila persone rimangono senza fiato, Don Carmelo osserva, sulla palla si avventano insieme Scilipoti e Gianni Lanfranco, è un attimo eterno. Lanfranco anticipa di un soffio il martello catanese e la palla cade nell’angolo destro della difesa cubana ferma come le statue dell’esercito di terra cotta cinese. Gli aficionados esplodono, c’è l’urlo disumano quello di pancia e cuore. Si invade il campo per portare in trionfo i giocatori: siamo per la prima volta in finale al mondiale.

Il momento estatico della pallavolo italiana è esistito: due più due ha fatto cinque. Da qui parte la nave azzurra che vincerà tutto con Velasco e la sua Generazione di Fenomeni, come dall’Argentina la nazionale del Vecio troverà la convinzione della forza e dell’audacia dantoniana nelle notti magiche di Madrid, quattro anni dopo.

Il 1 ottobre del ’78 l’Unione Sovietica in finale è ancora più forte. Li mettiamo in difficoltà nel primo set, ci portiamo in vantaggio 11-5 e 13-7 nel secondo ma Molibonga è come Nelinho e Dirceu in Argentina, perfido con le sue traiettorie. Sotto 2-0 non c’è più partita, cediamo contro gli zar Platonov, Zaytsev e Savin i più forti, ma non importa abbiamo volato.

Due squadre che hanno affrontato a testa alta grandi giocatori da Rumenigge a Karov, da Martinez a Kempes, da Neeskens e Krol a i dioscuri russi, due squadre che posero le basi per le vittorie dell’82 e del 2006 nel calcio e degli europei ’89 e mondiali ’90 nella pallavolo, i primi trionfi della nazionale della leggenda. Si perché nel ’78 l’Olanda era l’ombelico del mondo per il gioco, l’Unione Sovietica era al suo quinto trionfo mondiale, ma da li in poi vinceremo due mondiali nel calcio e diventeremo la squadra del secolo più dell’Urss, sarà il volo del Gabbiano d’Argento.

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