Azzurro tenebra

Posted By on Feb 11, 2020 | 0 comments


Di Matteo Quaglini

Le nazionali italiane di calcio e pallavolo hanno avuto i loro personaggi scomodi, Don Chisciotte grandi del regno senza macchia, ma con qualche ferita. Una carrellata di campioni affermati, di talenti inespressi, di bizzosi, di dissidenti senza memoria, di fedelissimi epurati sull’altare sacro del dogma tattico. Alcuni prima di essere ripudiati hanno scritto pagine indelebili del romanzo sportivo bianco, rosso e verde, altri sono stati solo atleti polemici, altri ancora sono stati addirittura troppo campioni per far parte di un gruppo. D’altronde se Mozart e Beethoven suonavano da soli un motivo avrà pur dovuto esserci.

Tutti, però, ad un certo punto della loro parabola in nazionale si sono scontrati con i commissari tecnici del tempo in cui schiacciavano un pallone sui tre metri del campo o lo spedivano sotto l’incrocio della porta. Trattasi del classico scontro tra personalità forti. Uno scontro dove uno vuole detenere lo scettro del potere e l’altro, l’ammiraglio della nave, deve far caso anche al resto dell’equipaggio che vuole entrare in porto. E per far attraccare la nave che poi deve ripartire per dare significato al viaggio: bisogna fare scelte nette.

Come quella che fece Vittorio Pozzo, commissario tecnico due volte campione del mondo, nel febbraio del 1931 nel caso Bernardini. Il grande giocatore romano era di quegli anni, assieme a Peppino Meazza, il fuoriclasse italiano assoluto. Un regista classico del vecchio Metodo, lo schema che anticipava il contropiede. Giocava con classe eccelsa il “Fuffo de ‘noantri” esprimendo tutta la sua diversità di romano aristocratico e di calciatore laureato alla Bocconi di Milano.

La nazionale italiana di calcio era tra le più forti del mondo, avevamo appena battuto 5-0 a Budapest l’Ungheria e a Milano l’Austria, il meglio del calcio danubiano santa sanctorum del pallone anni trenta. Il ragionamento fu semplice: se a questa squadra che furoreggia aggiungiamo Fulvio Bernardini, non può che diventare ancora più forte. Così il 25 gennaio 1931 il centro mediano più famoso d’Europa gioca a Bologna contro la Francia nel 5-0 che i nostri rifilano ai francesi e poi rigioca in Italia-Cecoslovacchia qualche settimana dopo, un curioso fatto però accade: prima del calcio d’inizio Pozzo entra in campo e lo abbraccia. Cosa succede e perché quel gesto da parte del commissario tecnico? Se lo chiederà anni dopo anche Bernardini, senza trovare risposta.

Qualcosa non va perché nell’allenamento pre Francia, Vittorio Pozzo ha provato Bernardini laterale destro del centrocampo a tre: una posizione che il senatore romano non gradisce. Agli abbracci inspiegabili e alle tattiche indigeste si aggiunge un conciliabolo, quello tra Caligaris e lo stesso Pozzo il giorno prima della partita di nuovo con l’Ungheria. I due si appartano mentre la squadra sta mangiando, tutti notano ma nessuno chiede informazioni. Dalla ricostruzione che il dottor Fulvio fece sul suo diario emerge che al centro del discorso c’è il mediano della Juventus Bertolini, che se la passa male sul piano economico. Il grande Caligaris è lì per aiutare il compagno di squadra ad essere inserito nella rosa azzurra così da prendere il premio partita.

Nel primo pomeriggio Vittorio Pozzo convoca Bernardini nella sua stanza: nasce la teoria del troppo bravo. Il commissario tecnico, senza mai guardare in faccia il campione come racconta lo stesso Fuffo, spiega le sue ragioni: “Vede lei gioca attualmente in modo superiore; in modo, direi, perfetto, dal punto di vista della prestazione individuale. Questa sua particolare situazione porta la squadra, dove lei opera, all’assurdo di non avere facili collegamenti, perché gli altri non possono arrivare alla concezione che lei ha del gioco e finiscono per trovarsi in soggezione”. Una spiegazione tecnica che lascia esterrefatto il grande giocatore. Prosegue Pozzo: “Dovrei chiederle di giocare meno bene. Sacrificare lei, o sacrificare tutti gli altri? E’ un problema difficile, come mai ne ho avuti da risolvere. Mi dica lei: come si regolerebbe al mio posto?

Un campione si sa, ha per definizione grande orgoglio e per giunta Bernardini era romano: così il centro mediano ringraziò stizzito il commissario tecnico e tornò nella sua stanza per rivestirsi da borghese, fu l’ultimo capitolo di Fulvio Bernardini in nazionale. Nacquero le prime polemiche

giornalistiche, in una stampa che era per lo più solo cronaca. Nacquero anche domande scomode mai soddisfatte: l’esclusione di Bernardini fu legata alla necessità di aiutare Bertolini? Veramente Bernardini squilibrava la squadra con la sua classe superiore? E ancora, Pozzo trovò una scusa o la sua fu realmente una decisione tecnica? Ci vorrebbe un investigatore di chiara fama per dipanare questi dubbi che durano da ottant’anni.

Le polemiche del caso Bernardini fanno il palio con quelle nate intorno alla nazionale di pallavolo campione del mondo in un caldo settembre genovese del 1992. L’Italia di Velasco batte Cuba per 3a1 e vince la terza World League della sua storia, Fabio Vullo e Andrea Lucchetta giocano rispettivamente la partita numero 139 e 295 nessuno dei due totem immagina che sia l’ultima in nazionale. E’ uno scontro tra giganti, da una parte il grande capitano anima della nazionale e il fuoriclasse del palleggio, un po’ bizzoso, un po’ eccentrico, certamente non facile da gestire, ma campione assoluto. Dall’altra l’allenatore che ha cambiato la mentalità della pallavolo italiana portandola la dove erano stati l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti d’America, sul tetto del mondo. Da che parte stare? E perché Velasco rinuncia a due pilastri? E’ come se Napoleone avesse rinunciato per la sue battaglie più importanti e future a Murat e Berthier due dei suoi più grandi marescialli. Si ipotizza che qualcosa si fosse rotto quando Olof Van Der Mulen, il Gascoigne della pallavolo, ha messo giù il pallone della disfatta olimpica di marca olandese. L’Olanda-Italia delle Olimpiadi spagnole era per la nazionale di Velasco la battaglia epica come lo fu Austerlitz per Napoleone. Perdendo qualcosa venne meno. Sia in Velasco che nei suoi alfieri. Furono le vecchie ruggini con Vullo o l’idea di dare stabilità a Tofoli in palleggio, i motivi addotti dal tecnico? Forse entrambe le cose, mentre l’idea di spostare Giani al centro con la conferma di Gardini determinava un Lucchetta capitano non giocatore in panchina fatto tecnico impossibile nella mente dell’allenatore argentino.

Le polemiche divampano, c’è chi come al solito parla di esclusione di personalità forti che offuscherebbero il nocchiero della nave, chi prende come Zorzi posizione in favore di Crazy Lucky, chi come Vullo sotterra il calumet della pace per riprendere l’ascia di polemiche mai sopite. La nazionale sbanda come mai era accaduto prima, nemmeno l’ultima grande Urss che l’aveva battuta a Berlino all’europeo ’91 aveva fatto così grandi danni nel bastione azzurro. La nazionale giocherà il prossimo quadriennio olimpico senza il suo capitano che nella metafora della foresta bruciata nel suo cuore, omaggia con un bellissimo simbolismo l’amore per la squadra di cui è stata immensa bandiera.

Alla fine anche grazie all’opera diplomatica di un grande dirigente come Aristo Isola, uno dei più grandi della pallavolo italiana, Velasco rimase forte e saldo sulla plancia di comando come un novello Hontario Nelson. Ecco il punto, rimanere saldi anche quando tutto il mondo ti vuole defenestrare: per farlo serve la vittoria. Nella lunga storia della nazionale di calcio fu forse per questo che i mitici messicani del 1970 vennero accolti a pomodori al loro rientro in patria, perché non avevano vinto il titolo mondiale e così la staffetta più famosa della storia di cento anni di pallone, quella Mazzola-Rivera, era passata da arguta mossa tattica per prendere gli avversari in contropiede, a tattica autolesionista. Il cambio di opinione sul Valcareggi pensiero avvenne a sei minuti dalla fine della finale Italia-Brasile, davanti al magno Pelé.

L’abatino, come lo definiva Brera, Gianni Rivera entra a giochi fatti sul 4-1 per il Brasile che aspetta solo il fischio finale, atto a suggello della sua terza Rimet. Un ingresso nato storto e foriero di una domanda, perché ora? Si disse di una chiamata a correità per Rivera, si parlò di una grossa incertezza su quanto effettivamente mancasse alla fine, indizi che non fanno una prova concreta sulle ragioni che portarono il commissario campione d’Europa a cancellare di fatto nella partita più importante l’arma tattica che aveva portato gli azzurri, assieme ai gol di Riva e Bonisegna, e alla forza della difesa, in finale.

Già attuarla aveva sconcertato perfino lo stesso Pelé che si chiedeva com’era possibile che tanta classe fosse parcellizzata ed equamente divisa in due tempi a testa, senza potersi esprimere tutta insieme come facevano loro i brasiliani, leoni nella savana messicana. Pensate cosa avvenne allora quando Rivera all’inizio del secondo tempo, sul risultato1-1, non entrò. Una domanda ancora oggi è viva nei pensieri dei cronisti: perché non si sfruttarono i suoi stupendi lanci sulle due migliori punte del mondiale proprio mentre la partita era in equilibrio? Forse la risposta è nel mantenimento

dell’equilibrio tattico che delle volte un giocatore garantisce agli altri dieci. Se la ragione che mantenne Mazzola in campo è questa, allora si spiegano anche altri casi di esclusione come quelli di Beccalossi e Hristo Zlatanov.

Il primo era uno dei virtuosi dell’Inter campione d’Italia 1980, l’altro un grande martello di Piacenza che aveva giocato nell’Asystel Milano allenata da Montali. Il Beck dal sinistro vellutato e dalla fantasia irrequieta venne escluso da Enzo Bearzot per i mondiali di Spagna ’82 in nome della sua anarchia e forse anche di una certa arroganza che mal si incastrava negli equilibri di un gruppo che andava consolidando Antognoni, scoprendo Brunetto Conti e ritrovando Paolo Rossi. In un quadro così incerto perché non legato, in quel momento, alla continuità tecnica dei tre il vecio rinunciò alle certezze dell’estro per affidarsi alla dedizione di pretoriani che conosceva profondamente nell’animo.

Così come fece Montali, senza non poche polemiche. A Salsomaggiore nell’ultimo collegiale prima dell’europeo casalingo del 2005 comunicò a Hristo Zlatanov, uno dei più forti attaccanti di posto quattro del campionato, la sua esclusione dalla competizione. I giorni successivi furono di polemica rovente: il figlio del campione bulgaro anni settanta, dichiarò che di Montali non ci poteva fidare visto che lo aveva voluto fortemente in nazionale per tutta l’estate per poi al momento decisivo scaricarlo a favore di Savani. Venne additata come manifesto dei torbidi anche un’amichevole in cui Zlatanov si lamentò di aver ricevuto dal palleggiatore Sintini solo undici palloni giocabili contro i ventitre offerti a Savani.

Le strade di Montali l’innominabile per usare una figura manzoniana e di Zlatanov l’escluso si divisero per sempre nella lunga avventura azzurra che aveva ricalcato nei modi e nei tempi, la storia di Mario Balotelli prima talento prodigioso, poi centravanti bizzoso ed egocentrico della nazionale vice campione d’Europa di Prandelli e poi capo espiatorio delle colpe di tutti al mondiale brasiliano. Un andirivieni in stile Gabriel Garcia Marquez ne “L’amore ai tempi del colera”, per un sentimento di fiducia mai completamente nato con i commissari tecnici, Mancini compreso.

Si è sempre sentito un grande incompreso Balotelli, nessuno che fosse capace fino in fondo di apprezzare il suo talento e di capirlo, esattamente come accadde a Rebaudengo – oggi dirigente della Lega femminile di pallavolo – ieri palleggiatore talentuoso della squadra del Torino quattro volte campione d’Italia. Il professor Silvano Prandi è il suo allenatore nel club, ma lo esclude dai Mondiali parigini del 1986. E’ una storia balotelliana ante litteram visto che anche Don Carmelo Pittera lo toglie dalla lista per le Olimpiadi di Seul del 1988 preferendogli Lazzeroni. Troppo talento intriso di polemica visto i trascorsi del buon Piero? Oppure i suoi mentori lo hanno abbandonato in nome di palleggiatori più regolari? Ecco l’ultimo stadio del noir delle nazionali di calcio e pallavolo, la tattica.

Costruito un dogma ci vogliono i suoi dissacratori, i dissidenti. Dopo il torneo americano dell’estate 1992 e una grandiosa vittoria in Olanda, finì l’era di Zenga, Ferri e Vialli in nazionale. Sull’altare della tattica, del dogmatismo strategico, Arrigo Sacchi interpretò il ruolo che nel ‘500 fu di Calvino cacciando gli atei del calcio all’italiana dal tempio. Molte le analogie con l’altro commissario tecnico Julio Velasco, ma nelle esclusioni di Vullo e Lucchetta c’era meno fondamentalismo, meno religione sportiva e più pragmatismo la vera fede tecnica dell’argentino.

Il vate di Fusignano voleva chiudere un ciclo tecnico, quello di Azelio Vicini e aprirne uno nuovo cambiando non solo la mentalità, ma anche gli interpreti. Una scelta opposta all’idea che le battaglie si fanno con i soldati di cui si dispone, così come aveva scelto di fare Napoleone con la sventurata armata d’Italia: Sacchi no, rinunciò a giocatori di talento come Giannini e gli altri per avere il suo calcio.

Si parlò di un allenatore che sapeva e voleva guidare solo dei soldati anziché dei marescialli; gli stessi soldati che Berruto defenestrò nella campagna del 2016, quella di avvicinamento alle Olimpiadi che poi avrebbe condotto Blengini come commissario tecnico. Qui il giallo si infittisce e finisce per defenestrare tutti: dall’allenatore ai giocatori. Casus belli è una uscita serale di quattro azzurri non autorizzata dal filosofico tecnico che ama scrivere romanzi.

I quattro dissidenti dell’ordine imposto sono il palleggiatore Travica, Sabbi, Randazzo e la stella Ivan Zaytsev. La lite è furibonda, il clima rovente, Berruto si trasforma in Bernardo Gui il capo

dell’Inquisizione che Umberto Eco narra ne “Il Nome della Rosa”, con il rimpatrio dei quattro reprobi – per una volta non dell’Ave Maria – arriva la fine di un progetto tecnico. Il caso è grave per la nazionale tre volte campione del mondo e sei volte campione d’Europa, in più Travica e Zaytsev sono pupilli dell’allenatore torinese.

Nascono i partiti, si schierano i clan, ci sono dei volta faccia e delle polemiche striscianti che nemmeno l’arrivo di Davide Saitta, Iacopo Botto e Gabriele Nelli riescono a tamponare. Per la prima volta un provvedimento disciplinare costa il posto a colui che lo aveva preso, il c.t. Berruto si dimette e smette con la pallavolo: Zaytsev tornerà in squadra guidandola fino alla finale olimpica persa contro il Brasile e un altro aspetto verrà fuori, l’esordio in palleggio di Simone Giannelli dicianovenne talento trentino.

Alla fine rimane in ciascuno di questi casi da noir sportivo, la domanda su chi avesse ragione tra i commissari tecnici e i giocatori: alcuni di quegli allenatori sono diventanti dopo queste scelte campioni del mondo o d’Europa, altri sono approdati alla finale, altri ancora si sono dimessi, alcuni come Mancini oggi rinunciando ad uno hanno probabilmente trovato la squadra di tutti. Nonostante questi concreti risultati il mistero di defenestrazioni impopolari rimane, ci vorrebbe Hercule Poirot per risolvere pienamente dopo tanti anni il mistero dell’Azzurro tenebra, non vi pare?

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