Baggio e Bernardi, generazione di fenomeni

Posted By on Mar 9, 2020 | 0 comments


Di Matteo Quaglini

 

Tanti anni fa, nel 1991, uscì all’interno dell’album Siamo tutti elefanti inventati uno storico brano degli Stadio il gruppo musicale che lavorava con Lucio Dalla: Generazione di Fenomeni. Mai canzone fu più appropriata al contesto storico dello sport italiano di allora. Nell’anno della parabola discendente di Diego Armando Maradona, il fenomeno tra i fenomeni per eccellenza, salirono alle cronache due grandissimi fuoriclasse: Roberto Baggio e Lorenzo Bernardi.

Erano gli anni dell’ascesa sportiva e mediatica della pallavolo, gioco nobilissimo ma purtroppo confinato nell’anonimato di mitiche palestre conosciute solo da eretici appassionati. Poi venne Velasco e una generazione di campioni inimitabili che fecero fare al gioco della palla in aria l’ultimo salto verso la popolarità. Il calcio italiano di allora, invece, era diverso.

Un sport mediatico, fascinoso e gotico, appassionante e delle volte, tremenda corrida tra i campanili d’Italia. Eravamo il campionato più bello del mondo e da noi tra tanti campioni italiani e stranieri giocava Raffaello. L’immagine fu di Gianni Agnelli – uno che di estetica ha sempre capito tutto – quando Roberto Baggio già pennellava calcio sublime con la “dieci” anni prima indossata da Sivori e Platini. Questo giovane ragazzo nato a Caldogno, nel febbraio del 1967, è stato l’icona del gioco tecnico, della raffinatezza del tocco, del dribbling stretto erede diretto della grande scuola italiana di numeri dieci. Lui nel campionato del grande Milan della zona pressing, della Sampdoria di Vialli e Mancini, dell’Inter targata Mannschaft, era la diversità. Così come lo era Lorenzo il Magnifico, non da Firenze stavolta, ma da Trento. Per la pallavolo italiana Bernardi è stato quello che Baggio è stato per il calcio: il fuoriclasse che ti porta alla vittoria.

Gli inizi sono duri, ma la strada è subito giusta. Lorenzo Bernardi cresce a Padova, un tempo accademia importante e riconosciuta della pallavolo nostrana, come palleggiatore. Tutti lo identificano come il nuovo talento delle alzate, ma non la pensa così Julio Velasco che vede il lui il leone che sa trascinare e così un giorno gli fa vedere una foto di Karch Kiraly il miglior martello ricettore del mondo e grande trascinatore degli U.S.A di Doug Beal bi-campioni olimpici.

Lorenzo capisce il messaggio e muta pelle tecnica diventando il miglior attaccante della pallavolo internazionale e portando la nazionale italiana a vincere due mondiali di fila come la grande Urss. Gli esordi di Roberto Baggio sono nella Lanerossi Vicenza squadra mitica del Veneto che gioca tirando calci a un pallone. Due i primi successi: uno individuale caratterizzato dall’affluenza di 1.000 persone che guardano lui ogni volta che gioca nella Beretti e l’altro collettivo con la squadra promossa di nuovo in serie B.

Gli esordi si sa sono quelli necessari a farsi le ossa, ma la classe c’è e esce copiosa dal piede destro di Baggio e dal bagher e dall’attacco di Bernardi. Arrivano i trionfi della maturità: 9 scudetti e 4 coppe dei campioni per Lollo assaltatore di muri e difese avversarie. Due campionati, un pallone d’oro, una coppa UEFA per il Divin Codino. Ma la vera storia della loro immensa classe è racchiusa, come fosse teatro shakespiriano, in tre grandi atti. Il primo sipario è la nazionale.

L’esordio azzurro dei due campioni è distante di un anno: Bernardi indossa la maglia dei moschettieri nel 1987 in Portogallo per le qualificazioni all’europeo mentre Baggio esordisce l’anno dopo, nel 1988, contro l’Olanda dei tulipani e a battezzarlo c’è Gianni Brera. Il maestro del giornalismo italiano rivede in lui alle prime movenze, Peppino Meazza, il mito del calcio anni ’30. E’ un paragone grande e illustre che chiarisce subito chi è e chi sarà Roberto Baggio nel calcio italiano di quegli anni a venire.

Coetanei negli esordi, campioni grandi e diversi nella maturità. Lorenzo Bernardi ha vinto due mondiali e tre europei, è stato eletto in due circostanze miglior giocatore delle manifestazioni iridate. Il cammino di Roberto Baggio è stato più poetico che trionfale, in linea con la sua personalità: tre mondiali e tre storie agro dolci. Nel primo, quello delle notti magiche di Italia ’90, è l’Argentina dell’ultimo Maradona re a togliergli la possibilità di diventare campione del mondo, mentre nel secondo a USA 1994 è il protagonista assoluto del cammino azzurro. Qui gioca come Bernardi fece in Brasile quattro anni prima, da fuoriclasse compiuto che prende in mano la squadra nel momento del bisogno. Vivendo tutte le emozioni possibili, dall’oblio della sostituzione contro la Norvegia, alla splendida cavalcata a campo aperto contro la Spagna clementina, fino al gol a giro segnato sotto i baffi di Hristo Stoichkov.

Sembra il romanzo perfetto e il Brasile una nuova Cuba da battere in finale come fecero i ragazzi di Julio Velasco e invece arrivò il rigore di Pasadina, ma nella sua spiritualità aperta al Buddha il campione trovò la forza per reagire una volta ancora come aveva fatto di fronte agli infortuni. Coniò così la frase che racchiude la parola chiave della sua vita: “i rigori li sbagliano soltanto quelli che hanno il coraggio di tirarli”.

Ecco che appare, nel romanzo incrociato tra Baggio e Bernardi, la parola che fissa la carriera epica di entrambi: coraggio. Quello di Lollo number 9 che varia i colpi in attacco, nella finale dei mondiali greci 1994 con l’Olanda, tra schiacciate e pallonetti perfetti. E, quello, di Roberto da Caldogno che in una calda estate di quattro anni dopo si incunea nell’area di rigore francese e si fa scavalcare volutamente dalla palla per batterla lunga sul palo opposto a quello dove Barthez ha deciso di parare.

Il viaggio della sfera inizia e un brivido percorre la schiena dei cugini d’oltralpe. Sarebbe un gol anzi un “golden gol” che li eliminerebbe e addio sogni di grandeur. La traiettoria appare subito lunga come una schiacciata in diagonale di Bernardi, ma stavolta la classe è battuta dalla sfortuna: la palla fila via fuori. I rigori seguenti ci condanneranno e sanciranno l’ultimo atto di Roberto Baggio in azzurro. Dopo 56 partite e 27 gol terminerà la sua carriera tricolore.

Il secondo palco teatrale che racconta i due campionissimi è il gol che traslato alla pallavolo sta, come in una equazione tecnica, alla schiacciata. Di gol e schiacciate, il dieci e il grande martello ne hanno fatti a migliaia, è quindi il momento decisivo e il gesto che contano. Otto gol di Baggio per una schiacciata di Bernardi. Siamo in Brasile al Maracanaizinho con 27.000 persone che tifano per Cuba: sono tutti i tifosi brasiliani delusi dalla sconfitta che l’Italia ha dato in semifinale alla squadra di casa. Gli azzurri sono avanti per 2-1 e 14-13 nel quarto mentre Cuba attacca lungo, su quella palla c’è Lucchetta in posto 6 (la zona centrale della metà campo difensiva) che difende alzando in palleggio, corre Tofoli e alza alla mano per Bernardi che schiaccia forte sulle mani del muro cubano e la palla fila via a fondo campo: campioni del mondo!

Ciascuno di questi otto gol dei 323 complessivi segnati da Roberto Baggio è come quella schiacciata di Bernardi, sono reti da campioni del mondo anche se non hanno portato l’alloro iridato, ma hanno emozionato per l’arte e la classe con cui Raffaello li segnò. A ogni gol, a ogni dribbling, a ogni serpentina si affianca il salto in alto, il caricamento del braccio come fosse un arco, il colpo sulla palla, l’idea di colpire l’avversario nel suo punto debole, di Lollo. Gesti tecnici paralleli da vivere immaginandoli insieme. E’ come se Baggio fosse Bernardi in quel momento e viceversa come canta oggi Francesco Gabbani.

Quando fa passare la palla tra le gambe della barriera del Napoli segnando su punizione davanti a re Maradona, la traiettoria del pallone sembra, quasi, la traiettoria prima alta e poi bassa del colpo di Bernardi. Quando dribbla mezzo Milan di Sacchi a San Siro è come se passasse, anche lui, tra le braccia protese a muro di Cuba, valicando con leggerezza la famosa “Torre a sei mani” cubana. Quando segna al Psg e al Borussia Dortmund con serpentine e tiri taglienti, è decisivo per vincere una coppa UEFA come il biondo trentino. Il gol di uno si sa serve a tutta la squadra per superare l’ostacolo chiamato avversario: per uno fu il muro caraibico per l’altro il Parma. Era l’Inter di Marcello Lippi che voleva vincere il primo scudetto del nuovo millennio e che invece, si ritrovò a spareggiare per la Champions.

Due perle di Roby vissute con pallonetti irriverenti a beffare il portiere con la stessa classe con cui Bernardi variava il colpo fintando la bordata e concludendo di pallonetto, irretendo così oltre che i cubani anche gli olandesi nella finale di Atene 1994. Gli ultimi tre gol legano Baggio a Bernardi per l’importanza dell’avversario. La classe che batte Real Madrid, Cuba e la Juventus. Quelli del Real difendono larghi, come facevano i cubani, in una notte da luci a San Siro in cui Baggio si incunea tra Hierro e Bodo Illgner e segna una doppietta che fa epoca e copertina. Il gol alla Juventus nel marzo del 2001 è la gemma che riequilibra tutto: le polemiche per l’abbandono forzato dalla Fiorentina, il rigore da juventino non tirato verso Mareggini, l’ostracismo che lui avvertiva in Lippi, l’addio polemico per via del mancato rinnovo con madama. Tutto si chiude, come il nostro secondo sipario, con un controllo al volo, un dribbling sul portiere in uscita e un colpo di biliardo.

L’ultimo teatro è il rapporto con gli allenatori. Burrascoso, polemico, fatto delle volte di incomunicabilità e di poca comprensione reciproca. Baggio ha discusso con Ulivieri per una delle esclusioni più clamorose del campionato italiano, con Capello che ne amava poco la poetica, perfino col Trap reo di non averlo convocato in nazionale per il mondiale coreano del 2002. Il rapporto con Sacchi è stato alterno: polemico e paterno, perché tra una sostituzione e un rigore sbagliato c’è differenza.

L’amicizia e la complicità l’ha trovata, il buon Roberto, in Maifredi e Mazzone. Col primo è venuta naturale essendo due guasconi lui e Gigi da Brescia. Con Mazzone è stato il rapporto di un figlio sensibile con un padre solo apparentemente burbero, ma buono sotto pelle e nel cuore. E infatti Baggio stravede per il sor “Magara” Carletto. I rapporti di Lorenzo con i suoi capi sono stati meno inclini alla polemica, ma hanno lasciato comunque degli strascichi perché tra uomini di grande personalità serve anche la burrasca per capirsi. Su questo tratto si è snodato tutto il rapporto con Julio Velasco, due generali che andavano in battaglia insieme senza idee di primeggiare sull’altro.

Mentre Skiba, l’allenatore polacco che lo fece esordire in nazionale, era troppo burbero e severo per azzardare una polemica, con invece Montali non sono mancati gli scontri. Ma era nella natura del Monty provocare i giocatori per farli rendere al meglio, anche a costo di giocargli contro pur di vincere tutti. L’altro grande allenatore di Bernardi fu Kim Ho Chul che era come il grande trentino, un samurai. E tra guerrieri orientali basta un sguardo per capirsi e sapere cosa vuole l’altro da te, di polemizzare non c’è tempo ne necessità.

Con il terzo sipario che si chiude finisce anche questa storia parallela di campionissimi. Dopo il ritiro, avvenuto a tre anni di distanza per Roby nella San Siro rossonera appena campione d’Italia 2004 e per Lollo nel 2007, uno ha cominciato a fare l’allenatore di successo vincendo lo scudetto con la Sir Perugia prima di un addio finito nelle aule di tribunale; l’altro ha tentato di rivoluzionare la Federazione e la Lega con un progetto di 94 pagine mai letto dai burocrati del calcio italiano: ma come potevano dei conservatori grigi ascoltare un poeta? No, non potevano. Così, alla fine, Roberto Baggio e Lorenzo Bernardi sono stati grandi in tutto anche nel condurre squadre meno abituate alla vittoria con Verona, Brescia o ex grandi come Olympiakos e Fiorentina. Questo l’ultimo è il segno della loro immensa classe, il più grande a ben vedere quello che ne fa i depositari di una generazione di fenomeni.

 

 

 

 

 

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