I rivoluzionari del 1990

Posted By on Apr 6, 2020 | 0 comments


Matteo Quaglini Il 1990 fu l’anno della rivoluzione al potere nel calcio come nella pallavolo. Alfieri di un pensiero di gioco nuovo e affascinante, furono il Milan di Arrigo Sacchi e la nazionale italiana di pallavolo allenata da Julio Velasco comandante e filosofo. Con loro, maestri e rivoluzionari, c’erano grandiosi “citoyen” se per via della metafora volessimo paragonarli al popolo minuto e ai rappresentanti del Terzo Stato della Francia del 1789, giocatori capaci di “insorgere” sul calcio del catenaccio o in grado di battere Cuba la squadra già designata erede dell’Urss di Platonov e degli Usa di Kiraly.

La rivoluzione dell’ordine costituito fu fragorosa e duratura, ancora oggi infatti i suoi segni sono presenti: Guardiola, Klopp, il calcio d’attacco di stile europeo, l’idea anche in Italia di giocare iniziando l’azione dai difensori. Tutti “figli della rivoluzione”, che al contrario di quelli francesi di fine ‘700, hanno resistito, proliferato e divulgato il verbo che fu del Milan di Sacchi: il gioco esalta gli interpreti rendendoli migliori.

Nella pallavolo, se possibile, l’inversione dell’ordine imperante fu ancora più netto e frutto di un lavoro profondo che cambiò la mentalità dei giocatori. L’Italia viaggiava intorno al 12° posto mondiale, lontana anni luce dalla lotta per una medaglia. I tempi del “Gabbiano d’argento” 1978 di Carmelo Pittera o il bronzo olimpico di Los Angeles ’84 sembravano preistoria. I giocatori fortissimi individualmente, non rendevano come se la nazionale non sapesse tirarne fuori i veri valori ingrigita com’era dalla sua scarsa competitività.

L’idea di Velasco partì proprio da questo trascurato aspetto, la mentalità vincente. I principi su cui l’argentino costruì la squadra bi-campione del mondo sono forse più grandi delle vittorie stesse: competenza, lotta alla cultura degli alibi, forza mentale, capacità di affrontare gli ostacoli e superarli, non mollare mai. Ancora oggi le squadre più grandi della pallavolo contemporanea interpretano la costruzione del loro impianto tecnico così, seguendo Velasco.

I rivoluzionari, in quel 1990, erano in marcia dunque ma chi dovevano “rovesciare” dal trono delle tante vittorie? In serie A il totem si chiamava Juventus mentre nella pallavolo internazionale la montagna da scalare era impervia e rocciosa e in cima c’erano Urss, Usa e soprattutto, mentre il mito delle due corazzate vacillava, Cuba con i suoi bombardieri Joel Despaigne e Beltran. I primi depositari del bonipertismo puntavano solo alla vittoria, il gioco era una idea utopica: il nobile fine giustifica i mezzi, alla Machiavelli. I secondi erano ammantati di una presunzione poco caraibica: per quattro anni vinceremo sempre noi, gli italiani si rassegnino.

Per realizzare la rivoluzione ci vuole, visto il grande valore degli avversari, il doppio del lavoro e lo sviluppo quasi ossessivo di un preciso punto tecnico: migliorare ciascuno in un fondamentale. Così Baresi, Tassotti, Galli e Maldini ripetono mille e mille volte i movimenti difensivi del fuorigioco e insieme ai centrocampisti e agli attaccanti quelli del pressing ad uscire sul portatore di palla. Mentre, in palestra, Zorzi si allena a schiacciare lungo, sulle mani, forte in mezzo al muro, per migliorare solo ed esclusivamente l’attacco. Anche gli altri seguono questo metodo, lavorando il fondamentale che li porterà a passare da grandi giocatori a fuoriclasse del gioco. Come Bernardi che da palleggiatore, diventa sotto la cura modenese di Velasco, il miglior schiacciatore-ricevitore del mondo: ci sono volute ore e ore di ricezione per arrivare a quel livello.

Con questa disciplina del lavoro individuale svolto per rendere grande quello collettivo, il Milan rivince lo scudetto nel 1988 battendo il grande avversario del magnifico calcio all’italiana, il Napoli di Maradona. Un anno dopo, nel 1989, gli azzurri di Velasco vincono gli europei in Svezia battendo in finale la versione pallavolistica della squadra di calcio guidata dal Liedholm giocatore ai mondiali del 1958, quelli che rivelarono al mondo un certo Pelé. Contemporaneamente, pochi mesi prima, il Milan vinse da imbattuto la Coppa dei Campioni vent’anni dopo il suo ultimo successo, quella era la squadra di Rocco e Rivera esaltazione grandissima della difesa invalicabile e del contropiede micidiale orchestrato dalla classe adamantina del “dieci”.

Quello campione nella notte di Barcellona portava, invece, la rivoluzione olandese in Italia: Gullit, van Basten e Rijkaard erano i suoi Robespierre, i suoi Saint-Just, i suoi Marat. Il primo passo dei rivoluzionari Velasco e Sacchi e dei loro pretoriani era stato compiuto, ma gli avversari carichi di

storia e classe si stavano già riorganizzando. Nel 1989 vinse lo scudetto l’Inter potente e italianista nel gioco di Giovanni Trapattoni mentre nel 1990 Maradona si prese la rivincita in un rocambolesco finale che ripropose, diciassette anni dopo il 1973, la fatal Verona e vendicò lo scudetto perduto al San Paolo nel 1° maggio più famoso della storia del campionato italiano. Gli azzurri della palla in aria, guidati dal carisma del grande capitano Lucchetta, si trovarono a lottare contro Cuba indomita più che mai. Prima del mondiale brasiliano nove partite contro i caraibici e otto sconfitte senza appello.

Serviva al Milan di Sacchi e all’Italia di Velasco la vittoria decisiva, quella che afferma un’idea togliendo le spigolosità del dubbio. Un trionfo alla Austerlitz o alla Canne. Il Milan lo trovò una sera di maggio al Prater di Vienna contro il Benfica avvolto come sempre dalla maledizione di Bela Guttman. La nazionale di pallavolo compì la sua rivoluzione pochi mesi dopo: ancora una sconfitta per 3-0 contro Cuba nel girone eliminatorio, poi sotto 1-0 nella finale di Rio de Janeiro venne fuori la teoria del miglioramento individuale di ciascuno per realizzare il gioco di squadra. E fu una vittoria storica. La seconda Coppa dei Campioni del Milan, solo alcuni anni prima a rischio fallimento societario, e il titolo mondiale di una squadra quattro anni prima solo dodicesima nel mondo, furono il segno che la rivoluzione era completa e che i suoi eretici propugnatori avevano realizzato un modo nuovo di giocare e vincere.

Questi eretici esaltavano proprio come i rivoluzionari francesi che mandarono a gambe all’aria l’ancien regime, il talento. Il talento dell’uscire tutti insieme per far fuorigioco anche quando la partita è pari o c’è dall’altra parte un attaccante rapido alla Caniggia o alla Butragueño. Il talento di soffrire murando e difendendo anche quando l’avversario gioca meglio a inizio partita, come seppero fare Gardini e compagni contro Brasile e Cuba quando queste squadre giocarono meglio di loro nel primo set delle due partite decisive. Il Talento, anche, di credere fedelmente nella propria idea, nella propria identità, nella propria interpretazione degli eventi. Questo fu certamente il risultato più grande: essere sempre se stessi, consapevoli che la strada intrapresa è quella giusta anche quando tutti gli altri pensano il contrario.

Così si spiega la rivoluzione che queste due grandi squadre seppero realizzare: nella capacità di rimontare a volte, in quella di controllare il gioco in altre, a quella di attaccare sempre in tutte. Per questo le squadre della rivoluzione meritano di essere citate in onore della loro diversità, ai marescialli e ai grandi combattenti va sempre reso omaggio. La rivoluzione del Milan fu possibile con questa formazione: G. Galli, Tassotti, Rijkaard, Baresi, Maldini, Ancelotti, Evani, Colombo, Donadoni, Gullit e van Basten. I campioni del mondo impazziti di felicità nella notte di Rio e freschi del maresciallato di rivoluzionari erano: Tofoli al palleggio, Gardini e Lucchetta centrali, Zorzi opposto, Bernardi e Cantagalli martelli. Insieme a Velasco pronti a dare il loro contributo nei momenti difficili c’erano Anastasi, Martinelli, Giani, Bracci, Masciarelli e Fefé De Giorgi, grandi eterni campioni.

Eterni si, perché i rispettivi sport li hanno eletti come giocatori delle due squadre del secolo nel calcio e nella pallavolo. Come diceva Octave Aubry studioso di Napoleone Bonaparte: “Quando un’impresa dura così a lungo e porta tali frutti, si giustifica da sé”. Grazie campioni. Grazie rivoluzionari, di tutto.

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