I re di Roma

Posted By on Giu 5, 2020 | 0 comments


Di Matteo Quaglini

Nella sua immortale storia Roma ha avuto i suoi re. Grandissimi dei tempi monarchici e imperiali. L’imperatur era, infatti, il generale che conduce l’esercito alla vittoria e per questo entrava nella gloria eterna della storia. Nell’epoca moderna, gli imperatori, i re della Roma sono stati e sono gli allenatori. Novelli Augusto, Marco Aurelio, Diocleziano o Costantino. La storia di Roma e Lazio, nel calcio come nella pallavolo, li ha conosciuti in occasione delle non molte ma sentimentalmente indimenticabili vittorie dei giorni felici.

Il primo fra tutti fu Alfred Schaffer, ungherese arguto e astuto. Come Cesare venne, vide e vinse. Studiò nel campionato ’40-’41 una Roma derelitta e avvilita e poi all’incredulo segretario Vincenzo Biancone, deus ex machina della squadra che incarnava Testaccio, disse in un italiano non ortodosso: «datemi un centromediano e una mezzala, e io vincere il campionato». E così fu. Roma prima, nel ’42, davanti al Torino che si apprestava a diventare grande e leggendario. Il suo colpo da maestro consistette nell’impostare la squadra con il Metodo, papà del contropiede, quando tutti iniziavano già da anni a giocare con il Sistema di Chapman: il gioco dei passaggi, della corsa e del possesso.

Il primo re della Lazio in panchina è stato un romanista. E che romanista. Uno dei padri del palio cittadino sulle due sponde eretiche del Tevere. Era Fulvio Bernardini, il dottor sottile. Fuffo de ‘noantri era stato laziale da ragazzo, poi capitano della Roma grande e romantica di Testaccio, quindi dopo aver allenato la squadra del suo cuore nel ’50-’51 senza successo approdò alla Lazio da vincente alla Lorenzo il Magnifico grazie allo scudetto fiorentino del 1956. E l’imperatur gli venne conferito, dai suoi giocatori e dal popolo laziale, il 24 settembre 1958 quando la sua Lazio vinse la prima Coppa Italia della sua storia proprio contro la Fiorentina dei pretoriani di Bernardini, Chiappella, Cervato, Montuori e Sarti.

Come sempre il “dottore” aveva centrato la costruzione: un grande portiere come Bob Lovati, il comando della difesa a Franco Janich figura grande del calcio italiano, dal sapore di mito greco. A centrocampo la “fatica” di Tagnin lo stava portando sulla strada di diventare il marcatore capace, anni dopo, di annullare Di Stefano. C’era anche la classe di Tozzi, brasiliano dal colpo vellutato. Una squadra senza centravanti negli anni di Charles e Nordahl in anticipo sui tempi e col colpo di Prini alla tattica com’era stato nella Firenze scudettata. Per questo Bernardini è stato uno dei re di Roma più grandi, perché è stato trasversale nella città di quei due mondi opposti e inconciliabili che sono la Roma e la Lazio.

Poi vennero gli argentini: Luis Carniglia, Juan Carlos Lorenzo e il mago dei maghi, Helenio Herrera. Vinsero tra il 1961 e il 1972 due Coppe Italia, una Coppa delle Fiere e un Torneo Anglo-Italiano. Erano hidalgos e avventurieri. Maghi e provocatori. Polemisti e affabulatori. Per un verso o l’altro mai completamente amati dalla città di fede romanista. I fatti per ciascuno stanno così. Don Luis era uno che parlava “para amigos” perché odiava argomentare “oficial”, ufficiale cioè. Diceva tutto quello che non si può dire sui giocatori che finivano per odiarlo. E a proposito di questo sentimento, l’odio per Manfredini, in Carniglia, era profondo: ma come diceva «gli altri giocano e lui segna, non è giusto». Insieme vincono la Coppa delle Fiere ottenuta grazie ai gol di Pedro che nella battaglia della pampa argentina ha tutti i tifosi dalla sua. A ogni azione di Manfredini gridano Pedro, Pedro, Pedro e Carniglia che l’aveva defenestrato mettendo Lojacono centravanti si arrese. Il re era nudo e esonerato. Pedro si vendicò la settimana dopo segnando tre gol al Palermo e dichiarando: «al posto del portiere vedevo la sagoma di Carniglia». Nella Roma della Dolce vita si parlava l’argentino castigliano di Maipù e non quello di Olivos, le città della genesi di Manfredini e Don Luis.

Juan Carlos Lorenzo è stato a Roma, il Garibaldi argentino. Senza, però, il carisma giuseppinesco. Eroe e controverso comunque, hidalgo senza possedimenti dei due mondi. E’ stato il propagandista di una grande Lazio nella metà degli anni ’60, l’uomo degli impulsi istintivi del mitico Long John Chinaglia e nella Roma l’ideatore della colletta del Sistina che i romanisti ancora vedono con orrore. Don Juan è stato tra gli allenatori meno amati dal generoso pubblico della Roma, eppure ha saputo vincere una Coppa Italia nel ’64. Divenne re battendo Rocco, il suo esatto contrario. In quella vittoria ci mise la sua “magia”. Dopo lo 0-0 dell’Olimpico chiese che la ripetizione si disputasse al Comunale di Torino perché «in contropiede siamo maestri», il Toro sicuro di vincere accettò e cascò nella trappola di Don Juan. Quello fu l’unico guizzo di un re già decaduto come i sovrani merovingi quando già comandavano i maestri di palazzo carolingi.

Per parlare di Helenio Herrera ci vorrebbe un libro visto che è stato tutto e il contrario. A Roma quando venne fu incoronato imperatore come Carlo Magno. Poi, a differenza del grande re barbaro, la corte intorno a lui gli si rivoltò contro quasi subito. Per Carlo Magno non fu mai così. Marchini lo disprezzava umanamente per il cinismo e il trattamento a Taccola, Anzalone lo temeva come Don Abbondio temeva Dio, i Bravi e l’Innominabile. Anche i giocatori si dividevano: Cordova e Losi lo avevano inviso mentre Capello, Spinosi, Landini, Bet e Santarini erano col dispotico Shogun. Nonostante questo Herrera costruì una squadra valida che seppe vincere la Coppa Italia 1969 grazie ai gol poetici di Peiró.

Dopo il vento argentino soffiò su Roma quello italiano e svedese. Tommaso Maestrelli e Niels Liedholm sono stati due demiurghi e hanno portato i loro bastioni lì solo dove Schaffer aveva osato, allo scudetto. La Lazio del 1974 e la Roma del 1983 sono state forgiate dal loro pensiero tecnico, dal loro talento per tirare fuori la classe da ciascun giocatore, dal loro senso strategico. Tommaso Maestrelli sarebbe piaciuto a Federico II perché come il re degli Svevi era aperto alla vita e alla conoscenza profonda dell’animo umano. Niels Liedholm avrebbe incantato un altro Federico, il grande di Prussia perché come lui sapeva organizzare e vedere lontano: la grande Prussia e la grande Roma.

A fare da confine c’è stato Eriksson, Svennis per gli amici del circolo del tennis. Lo svedese di ghiaccio, che rappresentava per Dino Viola la nuova frontiera nel quadro di una Roma squadra internazionale e innovativa nel gioco, vinse con la Lazio gestendo le risorse e liberando il talento dei migliori lo scudetto che aveva perso nella Roma ’86 solo campione in Coppa Italia. Eriksson è stato un Canuto il Grande più freddo, mai amato come Maestrelli nella memorabilia dell’aquila ma ugualmente vincente inserendo nel palmares anche le sei coppe tra il ’98 e il 2000.

L’uomo di confine della Roma è stato Ottavio Bianchi, un re alla Federico Barbarossa mai amato dai “comuni” del tifo romanista. Un allenatore però capace e competente che oltre alla vittoria in Coppa Italia e alla finale Uefa, seppe gestire il dopo Viola come quei grandi maestri di palazzo che governano con mano sicura dopo il trapasso del Cesare. Da Ottavio a Fabio, il che ci fa introdurre anche Montali e Serniotti a Roma, allenatori di pallavolo.

Fabio Capello dopo lo scudetto con Batistuta, Montella e Totti venne eletto dalla gens romana: Fabio Massimo, il che spiega da se il passaggio sotto l’arco di trionfo sul cavallo alato. Duro come Gustavo Adolfo re di Svezia e dalle ampie vedute di vittoria come Pietro il Grande, ha amato Roma ed è stato amato prima del polemico addio che lo ha messo più di un gradino sotto al vecchio maestro Liddas.

Il Capello della pallavolo a Roma è stato Montali. Narciso all’inverosimile, sognatore di trionfi, saccente e competente, iracondo e provocatore con i giocatori, comunicativo e manager all’inglese, tutto questo è stato l’emiliano che ragiona da piemontese e ha il cuore napoletano. Lo scudetto del Giubileo della Piaggio Roma ha una firma indelebile: aver saputo gestire prime donne assolute piene di vezzi da divi alla Marlon Brando. Calmare e unire i Bracci, i Gardini, gli Hernandez, i Tofoli, i Klok e i Grbic è stato il trionfo strategico di re Montali. Mentre Serniotti, campione in Coppa Cev 2008 con la M. Roma è stato quello che Filippo il Bello fu per i Templari: un grande epuratore di talento quando serviva. Prima al suo servizio Tofoli e Hernandez, poi mai chiamati dalla panchina quando occorreva rovesciare le partite decisive di quella stagione che poteva colorarsi di scudetto.

Il piemontese Serniotti ci porta in pieno 2000. Erano quelli gli anni di Spalletti I re sullo stile dei principi slavi e dell’Est Europa, idealista, utopico e immaginifico, quindi. Il gioco, i gol, i triangoli della sua Roma incantarono anche Sir Alex Ferguson re scozzese che seppe conquistare l’Inghilterra. Arrivarono le coppe Italia e con esse l’ultimo laccio del nostro racconto proprio nel segno della coppa. Dal 2004 al 2019 la Lazio ha vinto quattro volte la Coppa Italia e due volte la Supercoppa italiana, autori di questi successi sono Mancini re illuminato dalla competenza, Petkovic principe elvetico, Inzaghi che si muove con la saggezza di un re di uno dei grandi ducati italiani del Medioevo e l’ambizione di un Ludovico il Moro signore di Milano. Mentre Delio Rossi aveva l’emotività dei re taumaturgici che vogliono dare tutto in nome dell’ideale. E questo ideale trova, nella pallavolo, i dirimpettai di un’idea in Andrea Ferretti allenatore campione d’Italia con la FederLazio ’77, bravissimo e serafico nel gestire campioni pieni di se stessi come Nencini, Salemme, Di Coste e soprattutto il barone Mattioli. Proprio Mattioli è ultimo re di Roma di questa carrellata. Nel 1975 è allenatore-giocatore, una figura tipica del calcio inglese, dell’Ariccia pallavolo che con il suo alfiere Kirk Kilgour vinse uno storico scudetto battendo la Panini Modena e tutta la rocca forte emiliana, in quella che è una vittoria indelebile. Alla Giulio Cesare per capirci.

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