Lassù dove osano le aquile

Posted By on Lug 22, 2020 | 0 comments


Di Matteo Quaglini

Campioni gotici e immaginifici. Campioni dell’attimo fuggente. Campioni dal colpo risolutore. Campioni nell’anima. Campioni controversi. Tutto questo e altro sono stati i grandi giocatori della FederLazio pallavolo ’77 e della Lazio campione d’Italia 1974, passata alla storia come la banda Chinaglia-Maestrelli. Due squadre vincenti e border-line, che hanno saputo vivere la loro parabola agonistica nel segno dell’aquila. Il rapace in grado di artigliare lo scudetto, nel calcio come nella pallavolo. A Roma sono gli anni ’70 oscuri e peccaminosi, a farla da padrone. E’ la stagione italiana del terrorismo degli opposti colori, dei servizi segreti ufficiali e di quelli deviati, dei rapimenti e dei torbidi nazional-internazionali. E’ anche il periodo di un football fascinoso perché interpretato da fuoriclasse daliniani come Rivera, Riva, Mazzola, Altafini, Prati, Cordova, Chinaglia, Wilson, Pulici e tanti altri bucanieri del rettangolo verde. Nella pallavolo, invece, sono gli anni di una geografia della vittoria che cambia rapidamente. Dopo il dominio, con tre squadre diverse, della città di Modena, ecco Firenze con la Ruini, Parma e per tre volte (’70, ’72, ’74) la Panini Modena, la Juventus della palla in aria. Mentre la via Emilia domina con Firenze che rivive le gesta di Lorenzo il Magnifico, qualcosa si muove nel Centro-Sud. La pallavolo in Italia è un gioco pensato, organizzato, strutturato, in Emilia la sua patria di sempre: quella della storia, come Genova lo è del calcio italiano.

Il Centro e il Sud vengono, mestamente, dopo. Nessuna squadra dalla prima edizione del campionato italiano anno del Signore 1946, ha vinto lo scudetto. Nessuna. Nessuna fino a che non appare sui parquet l’Ariccia. Il piccolo Comune di 18.609 abitanti, immerso nel verde dei castelli Romani, allestisce la squadra per vincere il tricolore. Così dal niente, ma con la competenza del presidente Cianfanelli e del direttore generale Renato Ammanito, dirigente mito. Dopo aver rilevato i diritti sportivi dall’Ostia Sporting si tuffano nella pallavolo dominata e comandata dall’Emilia che mangia bene e gioca con classe.

In poco tempo arriva la serie A poi nel 1975 lo scudetto che nel calcio fa il palio con quello del Cagliari del ’70, del Verona ’85 e della Sampdoria ’91. Il sestetto rivoluzionario gioca sotto la bandiera giacobina di Ariccia fino al 1976 poi si trasferisce filosoficamente (praticamente invece già dal campionato ’73-’74 giocava al Palazzetto dello Sport in Viale Tiziano a Roma) a Roma. E lì diventa FederLazio Accademia dello Sport, rilanciando la sfida ai mammasantissima della pallavolo. In quel 1976 la Lazio calcio 1900 si è appena salvata all’ultima giornata a Como, su quel ramo del Lago. Prima sotto di due gol poi, grazie alle prodezze di un trasteverino sordiano come Bruno Giordano e di Badiani, ha pareggiato in estremis. Un punto, che unito all’altro pari in Roma-Ascoli di un Olimpico inferocito contro i propri beniamini romanisti, serve a rimanere in serie A. Quella stessa serie A che due anni prima, nel gotico ’74, un’altra Lazio quella dei clan amici-rivali aveva vinto. E proprio quella vittoria, primo scudetto in settantaquattro anni di storia, apre alle analogie tra i due mondi gotici: quello fascinoso della vita da palestra e quello rude dei campi di calcio delimitati da infinite linee bianche.

Dopo il presidente Cianfanelli che aveva creato l’Ariccia, la mano passò a Zucchett padre putativo della FederLazio. Entrambi, forse come meno paternalismo e carisma ma con egual amore per il volo biancoceleste dell’aquila, sono stati quello che per la Lazio è stato Lenzini: il grande papà e il maestoso papa buono della banda Chinaglia. Infatti fu Lenzini a fare la squadra, come si usava nel calcio di una volta meno manageriale di oggi, più vero, più artigianale nel senso alto e pieno del termine. Così dopo la retrocessione del ’70-’71 arrivò Maestrelli, l’allenatore saggio. Con lui vennero acquistati dopo l’immediata promozione in A del ’71-’72: Felice Pulici dal Novara, Petrelli dalla Roma, Garlaschelli dal Como, Frustalupi dall’Inter con la quale aveva vinto da dieci ispiratore di manovre, uno scudetto e giocato una finale di Coppa dei Campioni. A questi ragazzi Maestrelli aggiunse la classe pirotecnica di Vincenzo D’Amico che furoreggiava nelle giovanili e la potenza di Franzoni, che segnerà il gol vittoria in famoso Roma-Lazio, dal Brindisi. Già un anno prima poi, era arrivato da Foggia un altro scudiero di Tommaso il saggio, il biondo Re Cecconi. Tutti insieme attaccarono lo scudetto sin dalla stagione ’72-’73, poi l’anno dopo lo vinsero e divennero gli “Intoccabili”. Come nella pellicola che raccontava la sfida di quattro poliziotti incorruttibili e onesti che lottavano contro Al Capone nell’America di fine anni ’20.

La costruzione della FederLazio fu molto simile, improntata come quella della Lazio a reclutare prima di tutti uomini dalla grande personalità. Quand’era ancora Ariccia il grande Ammannito acquistò dalla Ruini Firenze (una delle squadre campioni di quegli anni) il baronetto del palleggio Mario Mattioli, oltre duecento partite in nazionale, e sempre dalla Firenze che schiaccia arrivarono Andrea Nencini e Erasmo Salemme. A questi campioni la dirigenza aggiunse dieci giocatori romani, rinverdendo una vecchia tradizione della Città Eterna che gioca a pallone. Tra questi ragazzi c’è anche Claudio Di Coste, 207 cm, che sarà un anno dopo uno dei grandi protagonisti del Gabbiano d’Argento, la prima grande nazionale azzurra della storia della pallavolo.

Due squadre grandi e già intrise di una mentalità vincente feroce capace di superare qualsiasi ostacolo. Come quello gravissimo e ingiusto che capitò a Kirk Kilgour grande schiacciatore americano dell’Ariccia, il Chinaglia della squadra. Rispetto a Long John era un leader meno aggressivo e più riflessivo, ma come l’imperioso numero nove non si arrendeva mai. E giù a martellar palloni. Poi, purtroppo, la sfortuna si accanì contro questo campione sublime. Un esercizio fuori allenamento, un distaccamento dei materassini e la piroetta che sbilenca lede l’uso delle gambe, ma non del cuore e della mente. Era il gennaio del 1976. Come la Lazio, che di vicissitudini molte ne ha passate nella sua storia, anche l’Ariccia poi Federlazio ha mantenuto intatto nel suo cuore ardimentosi il motto di una vita: non mollare mai.

Così si gioca, finalmente. Il campionato di pallavolo ’76-’77 parte diviso in quattro gironi: nel gruppo A la Panini deve respingere l’assalto dell’Edilcuoghi Sassuolo, nel B Ravenna, culla della pallavolo, affronta la Klippan Torino che presto dominerà il campionato negli anni a seguire. Nel gruppo D, intanto, un’altra squadra emergente si confronta con i padri della Patria di Parma, è la Paoletti Catania di Don Carmelo Pittera. La FederLazio è inserita dal sorteggio nel gruppo C e se la vedrà con Padova, Trieste, Palermo, Firenze e Genova. Mattioli e compagni sono dei rulli compressori, esattamente come la Lazio della banda Maestrelli quando è in giornata. E si perché quando l’aquila è in giornata nessuno può arrestarne il volo.

Dieci vittorie dieci, ed è poule scudetto. Intanto negli altri gironi sono passate tutte le favorite che abbiamo visto prima. La geografia che lotterà per lo scudetto è chiara c’è l’Emilia del buon cibo e della vita a misura d’uomo, c’è il Piemonte risorgimentale, c’è la Sicilia dei vespri e c’è il Lazio o meglio la Lazio a dar battaglia. La FederLazio è indomabile in casa, al palazzetto di Viale Tiziano cadono gli dei della palla in aria. La Panini campione in carica guidata dal campione del mondo polacco Edward Skorek e dei nazionali Sibani, Giovenzana e Dall’Olio perde 3-2, il Torino degli enfants prodige Lanfranco, Rebaudengo e Bertoli cede con lo stesso punteggio, mentre Catania non riesce a resistere nemmeno con Greco e Nassi altri due fortissimi nazionali italiani.

La FederLazio gioca come la Lazio di Chinaglia e Wilson senza mai arrendersi, non si cede per nessuna ragione al mondo. Un momento di difficoltà passa solo quando la squadra cade a Modena e a Catania, ma come per la Lazio ’74 sconfitta a Torino dalla Juventus e a Milano dall’Inter, è solo un momento in più per superare ancora una volta l’ostacolo. Alla fine la FederLazio è prima con dodici vittorie su quattordici partite. E’ lo scudetto della tecnica feroce, dell’aggressività, del cuore oltre l’ostacolo, dei duelli vinti come quelli che Clint Estwood vinceva nei film western leoniani.

E’ lo stesso marchio di fabbrica della Lazio gotica e bellissima del 1974. Già perché tre anni prima la Lazio dei clan alcaponeschi, ma straordinari, ha vinto lo scudetto. Fino ad allora il miglior risultato della storia è stato il secondo posto del 1936-37 quando Silvio Piola bombardava i portieri avversari. Ora, si dicono in camera caritatis i protagonisti, bisogna vincere. Durante la settimana non si parlano, anzi si guardano in cagnesco. La domenica invece scatta l’alchimia e diventano un sol uomo come le Legioni di Cesare o quelle di Augusto, se volete.

Il campionato parte con due vittorie su Lanerossi Vicenza e Sampdoria, poi la Juventus ancora sicura di rivincere caccia un rovente 3-1 sulla faccia dei ragazzi che recitano nel film del campionato come Rod Steiger recitava in Waterloo, magistralmente cioè. Un po’ il colpo si avverte nelle fila della Lazio e l’Olimpico, che sarà terra di conquista con 12 vittorie, assiste a due pareggi con la Fiorentina dell’esordiente Gigi Radice e l’Inter dell’ultimo Herrera milanese. Ce né abbastanza per arrabbiarsi e tornare a ruggire. I leoni escono dalla gabbia e azzannano il campionato. Sei vittorie consecutive sei, per battere Riva e Albertosi, la Roma e il derby, Vinicio e il suo Napoli zonarolo, il Verona del presidentissimo Garonzi, il Milan di Rivera e Rocco e il Genoa di Simoni, Corso, Rosato e un giovanissimo Pruzzo che diventerà ecce bomber.

Il 13 gennaio del 1974 la Lazio va per la settima, ma il Torino come quello della pallavolo è avversario tosto e inaspettata arriva la sconfitta interna, l’unica di quella stagione. I gotici però sono anche quelli che non si arrendono mai, come il fantasma dell’opera. Due vittorie su Foggia e Bologna e cinque gol segnati, una vittoria a Vicenza con la squadra che mantiene, grazie alla classe negli interventi di Felice Pulici, la porta inviolata. La sconfitta di Genova sotto la lanterna sampdoriana è solo un incidente di percorso, perché ora è arrivato il momento di Long John.

Il capitano carismatico che domina l’area di rigore come Wilson domina la difesa, aggredisce. In un mese, tra il 17 febbraio e il 31 marzo, è lui a imperversare col suo carisma e i suoi gol contro la Juventus e la Roma del primo Liedholm. Arrivano due vittorie che scuotono il campionato in classico stile clan. Dopo il 3-3 di Napoli, la cronaca prende forma di leggenda e si materializza alla fine del primo tempo di Lazio-Verona 1-2. Maestrelli aspetta tutti sotto il tunnel che porta agli spogliatoi, poi li rimanda in campo a schiumar rabbia luciferina. La Lazio si avventa con gli artigli dell’aquila sulla preda e vincendo 4-2 è ormai sulla strada dello scudetto. La Juventus però è come la Panini di Skorek, ricordate? Non molla cioè.

Vince, vince, vince. La banda Chinaglia però è più forte e il suo è proprio come dicono i tifosi: un grido di battaglia. Il 12 maggio 1974 Long John batte il rigore dell’apoteosi ed è scudetto con questa leggendaria, gotica, irriverente formazione: Pulici, Petrelli, Martini, Nanni, Oddi, Wilson, Garlaschelli, Re Cecconi, Chinaglia, Frustalupi, Manservisi. Quando bisogna inventare la maglia numero undici è di Vincenzino D’Amico che la rovescia alla Corso, facendola diventare una numero dieci. La Lazio ha vinto. Nel suo scudetto c’è, per trasposizione, il baronato di Mattioli nell’eleganza nobile di Pino Wilson che quando stacca di testa è arioso come quando Mariuccio palleggia. C’è in Nanni la potenza di Nencini e in Salemme la spregiudicatezza di Re Cecconi e Garlaschelli. C’è in Martini, Petrelli, Oddi, Manservisi, Pulici la voglia di arrivare che avrà Di Coste. Su tutti però aleggia il carisma sopito solo nel fisico e mai nel cuore di Kirk Kilgour il capo carismatico alla Chinaglia della FederLazio campione. Già Chinaglia, Long John non fu solo un grido di battaglia, fu un volo. Un volo fin lassù, dove osano le aquile.

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