Musil e Puskas, i due colonnelli

Posted By on Lug 29, 2020 | 0 comments


Di Matteo Quaglini

La storia militare si è concentrata molto spesso se non sempre sui generali. Sarà il richiamo della figura del comando, sarà la suggestione dell’imperator di romana memoria, sarà che per il gioco della sintesi si vede in un sol uomo tutto un esercito, sarà per questi e altri motivi che di colonnelli, invece, se ne è sempre parlato meno. E allora è lo sport, che della storia militare secondo una vecchia teoria di Julio Velasco è la trasposizione per eccellenza, a fornirci un racconto che ha come protagonisti i colonnelli. Uno, Josef Musil viene da Kostelní Lhota. L’altro Ferenc Puskás da Budapest. Entrambi sono stati icone grandissime del calcio e della pallavolo dell’Est Europa.

Un mondo fascinoso e non appieno conosciuto quello del grande sport danubiano, confine un tempo dell’impero romano e poi nel corso dei secoli cuore e culla di filosofie di vita che hanno segnato anche il football e la palla in aria. Si perché tanto i cecoslovacchi che gli ungheresi, di cui Musil e Puskás rappresentano quella parte del tutto che ne avvalora il maresciallato, hanno contribuito all’evoluzione di questi due giochi di squadra. I cecoslovacchi che della pallavolo sono stati maestri fino a tutti gli anni ’60 hanno inventato il gesto tecnico del bagher: letteralmente scavatrice. In ossequio anche al movimento tecnico che vuole andare a prendere il pallone, scavarlo, e indirizzarlo tra le mani del palleggiatore che da lì può aprire il gioco sugli attaccanti.

Un giorno i figli del Danubio si sono accorti che ricevere il pallone solo in palleggio poteva comportare problemi alle mani soggette a infortuni per via del particolare tocco che va dato alla palla con quella tecnica e hanno optato per congiungere e stendere le braccia, piegando anche le gambe. Se gli americani hanno vinto tutto quello che c’era da vincere, negli anni ’80, grazie alla famosa ricezione laterale a due, lo devono anche ai padri cecoslovacchi del gioco. Gli ungheresi sono andati anche oltre, perché hanno messo in campo un nuovo modo di giocare a pallone. La famosa Ungheria, tra il ’48 e il ’54, ha creato la figura del centravanti di movimento e raccordo che torna a centrocampo e va a giocare da dieci. Il “falso nueve” che tanto ha caratterizzato l’ultimo decennio di calcio.

Di queste due opere d’arte dello sport Josef Musil e Ferenc Puskás sono stati i fari e le guide. Il campionissimo cecoslovacco è stato un asso del palleggio, il regista della squadra che seppe vincere due campionati del mondo e due campionati europei. Con la sua visione del gioco precisa e caratterizzata dalla continuità, che è il confine tra il buon giocatore e il grande fuoriclasse, la Cecoslovacchia della palla in aria ha vinto ed è sempre stata competitiva. Come i grandi eserciti ha conquistato le città della gloria: Parigi (’56) e Praga (’66) dal sapore di oro mondiale e Bucarest (’55) con di nuovo la capitale Praga (’58), allori europei. A quelle conquiste i cecoslovacchi sono arrivati grazie alle mani che cantavano di un colonnello, non di un generale. Quel colonnello era Josef Musil, eletto miglior giocatore ceco del XX secolo e inserito dalla Federazione Internazionale di pallavolo tra i primi otto giocatori del secolo.

Il palleggiatore nella pallavolo è la guida della squadra, l’equivalente del numero dieci nel calcio. Ma più che i numeri sono i compiti tecnici e tattici che marcano la differenza. E Musil e Puskás erano anche la tattica, intesa come grande strategia. Se la strategia, come diceva Napoleone, è l’uso del tempo, allora i due grandi fuoriclasse danubiani hanno utilizzato il loro tempo magnificamente. Dopo sette campionati cecoslovacchi, la stella di Josef Musil venne a brillare in Italia nella Panini Modena: era il 1968, anno di rivoluzioni in giro per il globo.

Quella di Ferenc Puskás brillò invece nella Madrid di Don Santiago Bernabeu, subito dopo la rivoluzione ungherese del’56. Il destino di Josef e Ferenc cambiò nel segno della rivolta. Il colonnello Puskás accusato di diserzione dal governo ungherese e squalificato per due anni dalla FIFA ebbe la pazienza di aspettare, come solo i grandi sanno fare, e poi approdò al Real Madrid: “l’equipo de la leyenda”. La rivoluzione dunque si era compiuta per i due colonnelli più famosi di quegli anni. Con il moto rivoluzionario nel cuore, nelle mani e nel piede sinistro del Danubio, Musil e Puskás iniziarono a giocare come sapevano e come avevano fatto nella Cecoslovacchia bi – campione d’Europa e del mondo e nella mitica Honvéd che il regime aveva sciolto dopo che la squadra si era rifiutata di rientrare in patria. Una volta liberi da oppressori e vecchi ricordi è tempo per Musil e Puskás di mostrare la loro immensa classe. La Panini Modena, nata due anni prima nel 1966, è alle prime esperienze nel campionato di pallavolo che in Italia si gioca dal 1946. Non è ancora la grande squadra che diventerà. Però i campionissimi servono a questo a indicare la via della vittoria. Il colonnello Musil arriva nella Modena che già ama la pallavolo, osserva e come Giulio Cesare vince. Non al primo colpo, ma l’anno dopo. Il 1970, la stagione di Riva e di Pelé. E’ il primo scudetto dei futuri campioni per antonomasia. Con la visione di gioco di Musil, i giovani Nannini, Montorsi, Giovenzana, Sibani prendono quota e vanno oltre l’ostacolo. Lui il piccolo palleggiatore (1,79 cm) che viene da Kostelní Lhota è abituato alla calma dei riflessivi e deve convivere con un vulcanico e istrionico Franco Anderlini l’allenatore che ha forgiato la Panini. E’ un duo da gemelli diversi, ma funziona splendidamente. E così la grande la Ruini Firenze campione d’Italia ’64, ’65 e ’68 è battuta di due punti.

Oltre a questa grande vittoria collettiva, come nella filosofia dei cecoslovacchi, ce n’è una individuale per il riflessivo Josef: ha svezzato quello che sarà negli anni futuri uno dei palleggiatori più grandi della scuola italiana, Francesco “Pupo” Dall’Olio. E’ una storia bella, questa, di sport e di vita. Un racconto che lega Josef a Ferenc. Anche Puskás è stato svezzato quand’era bambino da qualcuno: la strada, di felliniana memoria. Dalle strade d’Ungheria dove giocava con altri due bambini che diventeranno anche loro campionissimi, Jósef Bozsik e László Kubala, allo pseudonimo usato per eludere le norme per firmare il primo contratto a dodici anni (anziché tredici come da regolamento): Miklós Kovács.

Da lì la prima partita della sua vita, nel novembre del’43, nelle file del Kispest contro il Nagyvaradi. Quando Puskás, dopo l’Honvéd, torna a essere Puskás pesa qualche chilo di troppo e qualcuno nell’entourage del presidentissimo madrileno è scettico. Ma la classe è classe, un marchio di fabbrica forgiato sul sinistro che canta storie danubiane. Arrivano due coppe dei campioni, nelle quali c’è la gemma dei quattro gol nella finale di Glasgow all’Hampden Park davanti a 135.000 spettatori che impazziscono con le piroette di Puskás e di Di Stefano. Un anno prima (’58-’59) i due re si sono capiti. All’ultima giornata sia Ferenc che Alfredo sono appaiati in testa nella classifica “pichichi”, quella dei cannonieri di sua maestà la Spagna.

Nei minuti finali della partita che chiude il campionato il colonnello magiaro è solo davanti al portiere, ma anziché segnare passa il pallone al capo spirituale del madridismo anni ’50. Di Stefano segna e vince la classifica marcatori, Ferenc è stato altruista come lo era Musil che per mestiere doveva servire gli altri per far vincere la squadra. Due campioni così grandi hanno avuto un destino diverso in nazionale: trionfante e competitivo per Musil. Agrodolce e memorabile per Puskás.

La grande Cecoslovacchia e la grande Ungheria sono esistite e hanno contribuito alla storia del calcio e della pallavolo. I cechi guidati dalla sapienza di Josef Musil divennero due volte campioni del mondo e d’Europa battendo la Romania dei tanti Hagi della palla in aria, la Bulgaria dei fratelli di Asparuhov e Stoichkov e l’Unione Sovietica che della pallavolo è stata ed è oggi come Russia, un impero. L’Ungheria fu grandissima per sei anni quando dopo aver vinto la Coppa Internazionale antesignana del Campionato europeo per nazioni, vinse le Olimpiadi del’52 in una epica finale con la Jugoslavia. Poi venne una doppia vittoria contro i padri inglesi, trionfi alla Austerlitz. Il 6-3 di Wembley fu proprio come la grande battaglia dei tre imperatori e il 7-1 di Budapest sapeva molto delle grandi storiche imprese dei magiari nel mondo. In entrambe le occasioni il colonnello Puskás segnò due gol, col suo sinistro che voleva far conoscere a tutti la classe del calcio del passaggio millimetrico e del tiro al fulmicotone.

Uno dei suoi tiri micidiali si insaccò alle spalle del portiere tedesco Toni Turek, che diventerà l’idolo di un altro grande portiere germanico: Harald Schumacher. Era il 3-3 con cui gli ungheresi riprendevano, a pochi minuti dalla fine, i tedeschi nella finale di Berna. L’arbitro inglese Ling però annullò e fu come se un servizio di Musil fosse stato schiacciato fuori dall’attaccante di turno. Su questo gol contestato, che si dimostrerà poi regolare, finì la magna Ungheria del colonnello, ma Ferenc Puskás continuò a essere il sinistro magico del Danubio. Le mani, invece, erano di Josef Musil.

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