Di Matteo Quaglini
Ci sono storie nello sport che sanno di intoccabilità. Si tratta di quei racconti tecnici e agonistici che travalicano il pronostico, sconvolgendolo. Un universo sportivo dove nulla è più al suo posto e tutto, ma proprio tutto, può accadere. Nella pallavolo tutto questo è stato rappresentato dallo scudetto glorioso e inatteso dell’Ariccia. Nel calcio furono i ragazzi terribili di Paolo Mantovani a sovvertire i quadri del football italiano nell’anno 1991. Tutti si aspettavano o l’Inter dei tedeschi (Brehme, Matthaus, Klinsmann) o il Milan che aveva reincarnato in Italia l’Ajax di Cruijff o un guizzo ancora di re Maradona nella calda pancia del Vomero di Napoli. Invece vennero fuori Vialli e Mancini che come Mario Mattioli e Kirk Kilgour saranno, a sedici anni di distanza, novelli Robin Hood.
Come il ladro gentiluomo che rubava ai ricchi per donare ai poveri, questi campioni banditeschi giostravano in area o sotto rete con la voglia matta di scoccare la freccia che avrebbe trafitto i cuori di Modena, Bologna e Milano, roccaforti letterarie e agonistiche di sceriffi di Nottingham che manovrano a centrocampo o attaccano sul muro avversario. La loro storia fino alla scalata dello scudetto è simile e trova molti punti di congiunzione. Delle mitiche figure dei suoi Robin Hood abbiamo già parlato, come si fa in quelle sinossi dei libri che non vediamo l’ora di leggere pagina su pagina. Del loro cammino in quella selva chiamata foresta che è il campionato italiano, diciamo ora.
Sia l’Ariccia che la Sampdoria venivano entrambe dalla serie B. Il piccolo paesino dei Castelli Romani (poco più di 18.000 abitanti) venne promosso in serie A nel 1973, anno di austerity e tormenti internazionali. La Samp del ricco Mantovani approdò nel campionato più bello del mondo come veniva allora chiamato il torneo italiano, nell’estate dell’82: periodo di allori mondiali.
I catini del Palazzetto dello sport e del Luigi Ferraris ospitavano la ressa di un’idea chiara come il sole eppure capace di sconvolgere i piani dei rivali nella sua semplicità: nel cuore dell’area di rigore o per ogni centimetro del parquet vi assalteremo a suon d’imboscate. E così fu. Nel palazzetto di Viale Tiziano, nella Roma che vive il quartiere flaminio, caddero uno a uno gli dei. E nacque, al contempo, la legge del 3-0. Nessuno ne fu esente in quel magico ’74-’75 dove l’Ariccia vinse 25 partite su 26 di campionato, rimanendo imbattuta in casa. L’anima della squadra batteva forte i suoi battiti nella regale classe di Mario Mattioli palleggiatore pilastro della nazionale italiana, tre volte campione d’Italia con la Ruini Firenze e tra i fuoriclasse internazionali di allora. Era il Roberto Mancini dell’Ariccia.
E come Robertino da Jesi, decideva le partite. Col tocco del dieci. Come quando Mancini segnò due gol al Napoli di un Maradona che dettava, ancora per pochi attimi, i tempi della sinfonia della Napule è mille colori. Oppure come quando superò la difesa imperiale del Milan di Sacchi, portando in vantaggio i suoi al cospetto di quelli che pensavano di tornare re dopo i trionfi in giro per l’Europa. Ogni gol di Robertino equivaleva a una apertura in banda o al centro o dietro del Mariuccio fiorentino, barone e re alla Lorenzo il Magnifico. Se Mancini e Mattioli erano la mente dello scudetto degli intoccabili di Ariccia e Genova, Vialli e Kilgour erano il braccio. Non erano feroci e frontali come Boninsegna o Savin: erano guizzanti e sguscianti.
La fortuna dell’Ariccia campione d’Italia davanti al Cus Torino e alla Panini Modena staccata di dieci punti a fine torneo, fu questo losangelino baffuto di nome Kirk. Un campionissimo. Era stato eletto miglior difensore della lega di basket dello stato di Washington poi, rapito da un amore grande, era passato a giocare la pallavolo fino ad approdare nella nazionale USA: non ancora magnificata dalla filosofia di Doug Beal e del suo mentore Kiraly. Kilgour era Vialli e Vialli era Kilgour. Quando uno entrava in area era come se l’altro si fosse mosso con i tre passi rapidi di rincorsa per andare a prendere nel punto più alto la palla e scaraventarla nel parquet sotto i piedi degli avversari inchiodati in difesa.
Un rigore di Vialli a Tacconi era una parallela di Kilgour a lato del muro, una mezza rovesciata napoletana a ferire il Napoli campione d’Italia in carica del centravanti era una difesa in rullata dell’americano, un assolo verticale di Gianlucaccio a bucare l’Inter di Bergomi, Zenga e Ferri, a un passo dal Capodanno ’90, era uno schema d’incrocio del losangelino dal baffo alla Claudio Merli. Tutto in Vialli era Kirk Kilgour ed era simbiosi che profumava di scudetto. Così come sapeva di scudetto la loro spavalderia, la loro esuberanza, la loro voglia di andare oltre l’ostacolo. Un tutt’uno che trascinava tutti gli altri. I quali diventarono impavidi.
E allora Di Coste il lungagnone martello romano di 2,07 cm schiacciava all’americana maniera come Attilio Lombardo correva, con la pelata alla Biavati (mitica ala del Bologna che tremare il mondo fa), a perdifiato sulla destra. Quando la palla ce l’avevano gli altri emergevano in difesa della porta Pagliuca, Mannini, Vierchowod detto lo Zar e Pellegrini il regale lord dell’area sampdoriana, così come sui parquet di tutta Italia difendevano senza mollare un pallone Nencini e Andrea Feretti, che poi diventerà il medico della nazionale di calcio tra il ’90 e il 2008, i soldati dell’Ariccia che schiaccia.
Su tutti, però, ci sono loro due Kilgour e Vialli i capocannonieri. I figli prediletti di altri quattro intoccabili che erano i maestri cerimonieri dello scudetto, da tutti fortemente voluto. Uno era un presidente che sognava la grande pallavolo, in stile Panini, più giù dell’Arno: confine dello titolo tricolore fino ad allora. Si chiamava Giovanni Cianfanelli e come il grande Paolo Mantovani aveva un sogno: far conoscere l’ebrezza della vittoria a chi non l’aveva mai provata. Era un’idea ardita come quelle del Drake Enzo Ferrari. Ardita, ma possibile.
Gli altri due intoccabili che seppero perfezionare l’impresa furono un general manager e un allenatore. Renato Ammannito è stato il papà, il papa, il cardinale, il prete di campagna, il dirigente lungimirante, il visionario, l’alchimista che dal niente ma fondendo diverse idee di pallavolo, costruì il fenomeno Ariccia. Un fenomeno unico nel suo genere. Vujadin Boskov, laureato in storia, gitano nobile, slavo, orientale, allenatore, maestro, condottiero, fu come Ammannito il papà di Vialli e Mancini e degli altri ragazzi della Genova alla Crêza de mä. Quando Dossena segnò a San Siro nella partita decisiva con l’Inter di Giovannino Trapattoni, il varco si aprì. Esattamente come quando un altro “undici” Nencini dette il là all’assolo del losangelino Kirk.
Già la chiusura, in questo doppio fascinoso scudetto, è ancora per Kilgour e Vialli. Sullo 0-1 di Inter-Sampdoria, partita decisiva, Gianluca da Cremona sfugge a Ferri poi caracolla a evitare Zenga in uscita e il colpo è un tutt’uno come quelli di Kilgour sui muri protesi in alto del Cus Torino, l’ultimo avversario. Gancio destro e gol del 2-0 per la Sampdoria che vale il tricolore, schiacciata e palla a terra di Kirk per l’Ariccia campione. Doppio e meraviglio scudetto, vinto rigorosamente da intoccabili.