Argentina ’78, la carambola di Mario Kempes

Posted By on Set 7, 2020 | 0 comments


Matteo Quaglini

L’undicesimo mondiale di calcio si giocò nella terra della Pampa, dell’asado, di Gardel e del tango. Era il 1978, anno in cui in quelle terre lontane e contemplative comandava il regime di Videla. Un’epoca dura e oscura. Un momento storico nel quale il football inevitabilmente e involontariamente si mescolava alla politica. O meglio dalla politica poteva essere usato per scopi propagandistici. Delimitare il confine tra calcio inteso come strumento del regime e solito, affascinante universo di passioni, non era facile. Quelli erano anni in cui a Occidente si combatteva la Guerra Fredda anche attraverso lo sport in tutte le sue espressioni: calcio, basket, pallavolo, scacchi. Una vittoria sovietica o un trionfo a stelle e strisce poteva spostare in maniera importante l’ago della bilancia a favore di un “blocco” sull’altro. Nel Nuovo modo la questione era ancora più stringente.

I regimi sudamericani potevano influenzare non poco l’andamento di un torneo, le scelte nelle convocazioni, le sorti di un mondiale. Così quando inizia il mondiale 1978, l’aria è intrisa dalla polemiche e sa di congiura da parte del regime. Il calcio in mano alla dittatura per esaltare Videla e i suoi. Con questa sensazione nel cuore e sulla pelle l’Argentina guidata dal flaco Luis Cesar Menotti e capitanata sul campo dal “Caudillo” Daniel Alberto Passarella decide una cosa importante e sostanziale: il mondiale si gioca per noi stessi e per il nostro popolo. L’idea, da subito, si trasforma in qualcosa di più complesso. Diventa un vento argentino dalla folata acre che crede nella vittoria.

Ora se le cose stanno così una domanda prima della gara d’esordio del 2 giugno ’78 contro l’Ungheria, nasce spontanea: che vento era quell’Argentina che rinunciava a un Maradona diciottenne ma già fuoriclasse acclamato? Quando sullo 0-1 per gli ungheresi l’Argentina reagisce e ribalta con i gol di Luque e Bertoni il risultato, la risposta è chiara.

Quell’Argentina era un vento aspro, una folata spigolosa, un turbine pungente, un vento di tramontana. Era un vento anche perché come il vento arrivò improvvisa sul cielo terso del calcio mondiale. Da dieci mondiali l’Argentina sognava di vincere senza mai riuscirci. Si era avvicinata una volta sola, alla prima edizione giocata nel vicino Uruguay. La finale del 1930 aveva acclamato un grande goleador argentino come Stabile, ma i campioni olimpici di Amsterdam 1928 avevano ribaltato l’esito e si erano presi il primo alloro nella storia del mondiale. Dopo quella finale degli esordi ci fu poco d’argentino per i successivi nove campionati del mondo: un ottavo di finale, quattro non partecipazioni, due eliminazioni al primo turno e una al secondo, con i quarti di finale di Inghilterra ’66 come miglior risultato.

All’inizio del mondiale casalingo del ’78 l’Argentina era una meteora che ragionava come fosse un pianeta del sistema solare. Era una comparsa che già si credeva un grande attore. Un tutto per essere niente, sineddoche povera del calcio.

I referenti massimi del calcio anni ’70 a livello di coppa del mondo erano altri: la Germania dei cavalieri teutonici campione del mondo in carica e vice campione d’Europa, l’Olanda del calcio totale che era passata da un santone cardinalizio come Rinus Michels a uno gotico ancestrale come Happel. Il resto era altalena. Il Brasile respirava vivendo con lentezza il dopo Pelé, L’Inghilterra nonostante Don Revie si impegnasse ostinatamente per riproporre sotto la bandiera dei Tre Leoni, il suo banditesco Leeds United, rimaneva ancorata chissà a quali misteri di inespressione calcistica. Il calcio latino era come il pendolo di Edgard Allan Poe, oscillante senza però essere come nel racconto tagliente. La Spagna era provincia in cui anche Real Madrid e Barcellona arrancavano. La Francia cominciava il suo cammino verso la maturità giusto vent’anni dopo Just Fontaine e Raymond Kopa, un giovane ragazzo di origini italiane ne era il manifesto rivoluzionario si chiamava Platini e sarebbe diventato Roi Michel. L’Italia aveva chiuso con il suo passato di classe e dualismo e si ritrovava senza più Mazzola, Rivera, Burgnich, Capello, Chinaglia ricominciando dall’illuminismo di Bernardini e poi proseguendo con il pragmatismo di respiro internazionale di Enzo Bearzot, il vecio. Nuovi campioni l’animavano: Causio, Antognoni, Bettega, Zoff e proprio ad un attimo dall’esordio mondiale contro i cugini francesi d’oltrape, Cabrini e Pablito Rossi.

In questo universo di stili diversi e irrisolti sognava il colpaccio l’Argentina della generazione dei “Caudillos”. Sognava di essere finalmente nuova, finalmente vincente, finalmente vicina al cuore del popolo argentino, per il quale i giocatori avevano deciso di battersi. Oltre ai due condottieri Cesar Menotti e Daniel Passarella rappresentati estremi delle due anime della squadra, quella filosofica e quella guerresca, si muovevano nella “cancha” gli altri mariscales del calcio argentino. Il piccolo e sgusciante Osvaldo Ardiles, il bomber mondiale e caracollante Mario Kempes erede di Stabile, Leopoldo Luque centravanti baffuto, Gallego il duro, Tarantini il talento mancino e Osvaldo Matildo Fillol “el mejor arquero del mundo” per dirla con la voce degli argentini. Erano uomini con un sogno e un peso da portare: vincere nella loro terra, a tutti i costi. Vincere e riconquistare l’onore perduto per dieci mondiali. Vincere e difendere l’imbattibilità sudamericana dall’Europa che ancora una volta tornava in Sud America con l’idea di conquistare allori, come ai tempi degli hidalgos di Spagna.

Il mondiale d’Argentina del 1978 visse tra due contrapposizioni forti. L’aumento da 53 a 106 delle Federazioni partecipanti ai tornei di qualificazione, il doppio di Inghilterra 1966, e la questione politica. Il Peronismo e la sua effige Peron erano finiti da poco e da poco si era insidiato un oscuro signore, Videla. Era il tempo dei colonnelli, della dittatura militare, dei “Desaparecidos”, di Plaza de Mayo e del calcio come strumento di propaganda.

Fu un mondiale difficile, gotico e controverso in questo senso. Ma i giocatori di quell’Argentina hanno sempre dichiarato che lo giocarono per il popolo e per loro, non per la politica. Non mancarono gli aiuti e i dubbi, per un mondiale che era diventato un vento ispido. Un vento che l’Olanda provò a fermare e che l’Italia seppe battere in una gara storica a Mar De Plata. Vinsero gli italiani con un gol di Bettega dopo un triangolo magistrale con Paolo Rossi già Pablito come lo chiamerà la terra di Spagna quattro anni dopo. Vinsero 1-0 gli uomini di Bearzot e confinarono quella grande Argentina nell’altra imperiale cattedrale del suo calcio, Rosario. La città del Newell’s Old Boys, che sarà poi culla di Marcelo Bielsa e Leo Messi.

Da quella vittoria nostra cominciarono le magie argentine. Forse loro volevano perdere per non incontrare nel secondo girone Germania e Olanda, che invece toccarono a noi. Forse trovando un Brasile imbattuto e già guidato dalla classe di Zico, ma non trascendentale si sentivano più sicuri della finale. Alla fine così fu e tutti questi calcoli furono giusti, mentre l’Italia giocava benissimo ma incappava in due obici “orange” che consegnarono il divino Zoff alla critica più feroce, loro, gli argentini andavano in finale. Era la prima volta nella storia del calcio argentino.

Nel girone di semifinale ci fu un 6-0 argentino al Perù che ancora oggi desta sospetto e maldicenze. Troppo arrendevoli i peruviani e non corretto giocare già sapendo il risultato del Brasile. Ma il destino voleva una finale Argentina-Olanda, per assegnare la coppa a chi non l’aveva mai vinta. Gli olandesi avevano cominciato male, quasi fuori nel girone con Iran e Scozia si erano ripresi guidati dalla classe sotto porta di Rensenbrik, dalle volate a tutta fascia di Krol e dal gioco geometrico dei gemelli van de Kerkhof. Nelle sei partite che portarono l’Arancia meccanica alla finalissima di Buenos Aires non c’era Cruijff, il re d’Olanda.

L’Europeo perso due anni prima l’aveva deluso e il suo influsso magnetico era finito. In più un uomo libero come lui che faticava ad accettare la Spagna franchista non riusciva proprio a vedersi giocare in luogo di Caudillos, regimi totalitari e dittature. Ancora una volta il mondiale ’78 univa la politica al calcio.

Il 25 giugno 1978 a Buenos Aires con tutta l’Argentina si ferma: entravano al Monumental Argentina e Olanda con le loro migliori formazioni. Luis Cesar Menotti schierò questi undici: Fillol, Olguin, Tarantini, Gallego, Galvan, Passarella, Bertoni, Ardiles, Luque, Ortiz, Kempes. L’Olanda entrò sul terreno verde infarcito da coriandoli bianchi con nella mente la frase pre partita di Ernst Happel: «Signori, due punti». L’undici era: Jongbloed, Poortvliet, Krol, Jansen, Brandts, Neeskens, Haan, Willy van de Kerkhof, René van de Kerkohof, Rep, Rensenbrink. Due 4-3-3 di stile e scuola diversa a confronto. La finale fu, come tutto quel mondiale, una folata di vento.

Nel primo tempo dopo un naturale equilibrio ci fu, al 38′ minuto, il primo assolo di Mario Kempes, o meglio il suo primo caracollare. L’1-0 resistette fino a otto minuti dalla fine quando Dick Nanninga, subentrato a Rep, pareggiò gelando una nazione intera. Al 90′ Rensenbrik si ricordò della richiesta del gotico Happel e tirò fortissimo alle spalle di Fillol con l’intento di acciuffare i due maledetti punti da oro mondiale. Su quella pallonata forte e tesa nemmeno lui il mito della “porteria” tanghera poteva intercettare quel pallone. Forte, dritto, angolato, il dardo era partito nella direzione giusta.

L’Argentina si fermò con il respiro e anche Passarella, uno che non aveva paura nemmeno del diavolo, rimase con gli occhi sgranati dal terrore di subire il gol della irrimediabile sconfitta. Ma il mondo si sa confina la vittoria o la sconfitta nei centimetri. Fu palo pieno senza rientro a toccar la rete e furono supplementari. Li il vento cambiò e fu argentino nei capelli lunghi di Mario Kempes.

Un gol di carambola dopo un affondo centrale in area al minuto 105′. I difensori olandesi cercarono di chiudere alla disperata, ma il vento spirava forte in quei capelli lunghi dell’ala sinistra argentina. Mario Kempes si ritrovò solo davanti al portiere con la palla che impennandosi alta gli aveva spalancato la porta per scrivere il nome dell’Argentina campione del mondo per la prima volta sull’albo d’oro del mondiale. Tutto il mondiale in fin dei conti fu una carambola argentina, Mario Kempes l’aveva solo riassunta nell’azione finale che venne corroborata dal gol di Bertoni capace di dare ai “Caudillos” il loro primo maresciallato in battaglia e per battere l’Olanda allenata dal miglior coach ma non in grado del miglior gioco. Argentina ’78 fu vinta da una grande generazione di giocatori. Erano i figli dell’estetico River, dello stradarolo Boca, dell’accademico Estudiantes, del duro Independiente, erano i figli del vento e non di Videla.

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