History Moments, La prima volta da campioni del mondo

Posted By on Ott 8, 2020 | 0 comments


Di Matteo Quaglini

La chiamarono l’Italia dei moschettieri. E in effetti non avevano torto. Era l’Italia di giocatori di livello internazionale come Peppino Meazza, l’Italia di Vittorio Pozzo, l’Italia degli anni ’30. Uno dei racconti più affascinanti e complessi di tutta la storia del football mondiale. Affascinante perché le atmosfere di quegli anni erano gotiche e romantiche in ogni genere dello scibile umano e trasudavano di personaggi e di storia, di gotici e virtuosi: il grande scrittore Federico Garcia Lorca, l’altro maestro della scrittura Alberto Moravia, il grande cinema americano, il Jazz, i mezzi di comunicazione di massa, le giornate di elettricità magica di Londra, i venti dei totalitarismi. C’era tutto nella complessità di un periodo che avrebbe aperto, dopo il mondiale di Francia 1938, alla guerra e alle sue crudeltà, alle sue devastazioni, alla formazione poi di un’Europa democratica e però divisa in blocchi.

Tutte immagini e tutti personaggi e fatti che hanno raccontato insieme a molti altri, quello che storici eretici definirono “Il Secolo breve” apostrofando il Novecento e dando la centralità di tutto al quindicennio 1930-1945. In un periodo così ardimentoso e gotico non si potevano non giocare partite internazionali e mondiali fascinose, tornei pieni di gare suggestive giocate tra spacconate alla Paul Newman, fini dicitori alla Robert Redford e ribaltoni emozionanti che portavano a scontrarsi tra di loro attori del teatro calcistico alla Sergio Leone o alla Hitchcock.

In questo scenario internazionale il Congresso di Stoccolma assegnò, nel 1932, a pieni voti l’organizzazione del mondiale all’Italia. E subito si mosse la macchina organizzativa del regime mussoliniano per mostrare al mondo l’efficienza italiana. Erano i primi tempi della comunicazione di massa e un mondiale, in casa per giunta, costituiva lo strumento di propaganda necessario a manifestare il lavoro di un decennio.

Il mondiale però non è solo politica per fortuna. E’ gioco, è giocatori, è l’imprevedibile disegno di un pallone. E gli azzurri della generazione d’oro del quinquennio juventino, di Meazza, dei grandi oriundi che venivano dall’Argentina “nostra grande compagna di vita” Orsi, Monti (al secondo mondiale con due squadre diverse) e Guaita, dei campioni Ferrari e Schiavio, erano pronti ad inseguire il sogno della Coppa del mondo.

Vincerla per regalare alla gente l’emozione dell’attimo, perché il tempo quando si è nel posto giusto, con la persona giusta, con la sintonia perfetta, non ha nessuna importanza ne misura. Il sogno di Vittorio Pozzo e dei suoi doveva essere affrontato, però, in salita. L’Austria di Sindelar e Meisl, la Cecoslovacchia di Puc, Neyedly e Planika erano le favorite assolute, in assenza dell’Uruguay campione del mondo che aveva boicottato il torneo iridato e dell’Inghilterra che non riconosceva l’autorità della Fifa. Come poteva la Federazione Internazionale insegnare qualcosa ai maestri? Continuava l’ostracismo e l’isolazionismo “British”.

Alla fine di maggio si comincia. Otto città mondiali: Roma, Milano, Bologna, Firenze, Trieste, Napoli, Genova e Torino. La radio con la voce di Nicolò Carosio, il primo grande maestro della narrazione via etere, a raccontare le gesta di grandi campioni. L’Italia esordì il 27 maggio 1934 a Roma contro gli Stati Uniti. Nel calcio però, nonostante la semifinale di quattro anni prima, gli Yankees erano ancora una squadra giovane e inesperta. Gli azzurri passano ai quarti senza problemi. E’ di fatti un mondiale “diretto” perché non ci sono gironi e si gioca subito ad eliminazione diretta, chi vince prosegue il giro d’Italia sognando Roma. Sogna di conquistare l’ex città dell’Impero Romano anche la Spagna di “Ricardo El Grande” il leggendario Zamora, il portiere dell’epoca più forte del mondo.

Il quarto di finale è proprio tra gli azzurri e la Spagna non ancora coinvolta nella tempesta politica e culturale della guerra civile spagnola. A Firenze occorrono due giorni per stabilire il vincitore. Dopo l’1-1 della prima partita rimasto inalterato nei supplementari, si gioca la ripetizione. Chi vince affronta il Wunderteam di Hugo Meisl la miglior squadra d’Europa, allenata dal miglior allenatore e guidata dal miglior giocatore, Sindelar.

Gli azzurri con una rete dell’immaginifico Peppino Meazza battono gli spagnoli che non hanno, misteriosamente, Zamora in porta. La classe dell’interista è sopraffina nel mettere il pallone oltre la Spagna che ha ammainato l’idea del Siglo de Oro di Filippo II, in attesa di rinverdirla in un dominio grande nel nostro tempo, gli anni 2000. Nel 1934, intanto, l’Italia è in semifinale. Dall’altra parte del terreno di gioco ci sono gli austriaci.

L’Austria a quel tempo era il modello da seguire nello stile e nel gioco. Era la perfezione tecnica ed era considerata inattaccabile. Gli azzurri partono al fischio d’inizio senza essere favoriti. Pozzo sa di calcio, ma non era considerato un grande allenatore nelle strategie e a maggior ragione in quel momento in cui doveva affrontare il miglior coach del movimento calcistico europeo, Meisl. Tutto era contro. E tutto, come in un classico storico italiano, ci portò a vincere fuor di pronostico, a scalare la montagna dell’impossibile, a creare i presupposti per raggiungerlo veramente il sogno, senza immaginarlo solamente. Una partita antesignana di Italia-Brasile del 1982, di Italia-Francia del 2006, di Italia-Germania di Messico ’70.

Vince Pozzo su Meisl e vince l’Italia sull’Austria 1-0 con un gol di Guaita, il corsaro nero come lo chiamavano nella Roma di Testaccio gli “aficionados” romanisti. E’ finale. Di fronte c’è la Cecoslovacchia che ha eliminato la Romania, la Svizzera e la Germania. Grandi assenti sono l’Argentina e il Brasile incapaci di superare il primo turno.

Il 10 giugno 1934 si gioca a Roma, davanti a Mussolini e Jules Rimet, la seconda finale del campionato del mondo di calcio. La prima era stata tutta sudamericana, questa è tutta europea. Le formazioni vennero annunciate dalla voce calda e precisa di Nicolò Carosio. L’Italia giocava con: Combi, Monzeglio, Allemandi, Ferraris IV, Monti, Bertolini, Guaita, Meazza, Schiavio, Ferrari, Orsi. I cecoslovacchi misero in campo: Planika, Zenisek, Ctyroky, Kostalek, Cambal, Krcil, Junek, Svoboda, Sobotka, Neyedly, Puc. I campioni in terra danubiana erano il portiere Planika, il centromediano Cambal, il centrocampista Svoboda e gli attaccanti Puc e Neyedly il nuovo “bomber” del mondiale, l’erede di Stabile.

Il primo tempo scorre via sullo 0-0, noi abbiamo la classe dei nostri oriundi e di Meazza il “Maradona” italiano, milanese e ambrosiano. Loro hanno il gioco, la manovra, l’idea, la cultura tattica. Nel secondo tempo a venti dalla fine, Puc fa gol e lo stadio di Roma ammutolisce. Con Planika in porta diventa difficile sperare nel pareggio.

Il nostro calcio però all’epoca è offensivo, fondato sul talento. E il talento se ben indirizzato può tutto, come la volontà. Orsi, la grande ala sinistra della Juventus di Edoardo Agnelli, pareggia con una volee da fuori area: Supplementari. Non saranno gli unici, nella storia del mondiale, a regalare gioie colorate d’azzurro.

Nel primo tempo supplementare, Schiavio il centravanti batte all’angolo del grande portiere danubiano ed è 2-1, il mondiale sogno di Vittorio Pozzo e dei suoi ragazzi guasconi è a un passo.  La Cecoslovacchia non ha forza per reagire, gli ultimi assalti sono vani e flebili fuochi di paglia. L’Italia è campione del mondo. La vittoria diventa leggendaria, come in un romanzo anni’30, carica di tratti variegati e profondi, di gotici, guasconi e campioni. Gli azzurri hanno battuto la scuola danubiana, la migliore. E sono campioni del mondo come direbbe Nicolò Carosio.

 

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