I re del contropiede

Posted By on Ott 12, 2020 | 0 comments


Di Matteo Quaglini

Parigi val ben una messa. Con questa frase rinomata e riconosciuta si è sempre indicato quanto sia affascinate, almeno una volta nella vita, vedere Parigi. Vederla e viverla. La città dell’ex impero francese, il luogo della Tour Eiffel, le strade in cui termina con una passerella celebrativa il Tour de France, le mura dell’illuminismo, la Bastiglia e la sua rivoluzione, la gioventù intellettuale.

Tutte storie nella storia. Le stesse avventure che animarono il cuore ardimentoso dei giocatori delle squadre che presero parte al terzo campionato del mondo: Francia 1938.

Il mondiale venne assegnato ai francesi in segno di riconoscenza a Jules Rimet e a Henri Delaunay poi segretario della nascente UEFA dalla metà degli anni ’50 e ideatore del campionato europeo per nazioni:  un’altra avventura calcistica piena di pathos e storie suggestive.

Tutti a Parigi allora. Tutti a giocare il primo mondiale della contrapposizione tattica, con il WM opposto al metodo. Il WM o sistema era il gioco dei passaggi, del controllo della palla, del presidio nella metà avversaria con tanti uomini d’attacco. Per inquadrarlo con i numeri era un 3-4-3, dove fondamentale era la posizione dei centrocampisti: due dietro e due avanti a formare un quadrato, come nelle guerre romane di Caio Giulio Cesare o in quelle napoleoniche tra francesi e prussiani.  In questi quadrati i compiti erano precisi. I due dietro equilibravano la squadra sostenendo la difesa, mentre le due mezzali avanti formavano il quintetto d’attacco composto dall’ala sinistra, la mezzala sinistra, il centravanti, la mezzala destra, l’ala destra. Era lo schema del grande Arsenal di quegli anni di Herbert Chapman e sarà lo schema delle squadre egemoni della metà degli anni ’40 come il Grande Torino e degli anni ’50 dal River Plate al Real di Don Alfredo Di Stefano, all’Ungheria di Puskas.

Il Metodo col centromediano schierato a centrocampo più avanti dei due difensori si traduceva, invece, in un 2-3-2-3 fondato sul lancio del centrocampista centrale, sulla difesa e il contropiede. Ieri come oggi il calcio iniziava a proporre lo scontro tra ideologie come poi sarà tra zona pressing e uomo negli anni ’70, tra guardiolismo e blocco difensivo oggi.

L’Italia campione del mondo in carica sbarcò in Francia come assertrice convinta del Metodo. Vittorio Pozzo e i suoi nuovi cavalieri avevano deciso da che parte stare: il magnifico contropiede. Con questa arma tattica partono gli azzurri, solo cinque hanno già preso parte al mondiale italiano e sono il portiere Ceresoli, Monzeglio, Serantoni, Ferrari e il racconto fascinoso del football italiano anni ‘30 incarnato in un uomo, Meazza.

I nuovi campioni che si aggiungevano alla bisogna erano Piola il centravanti e le ali Biavati e Colaussi perni fondamentali nel gioco anzi nell’idea di controgioco.

Il tema del mondiale è tutto giocato sulla rivincita tra l’Italia e il calcio danubiano. La Cecoslovacchia è ancora fortissima, ma non ce la farà a bissare la finale. L’Austria è assente, come la Spagna per via di vicende politiche più grandi e controverse del football. L’avversario è dunque uno, l’Ungheria di Szabo e Sarosi progenitori della grande Ungheria del colonello Ferenc Puskas.

Essendo assenti anche l’Uruguay e la solita isolazionista Inghilterra, l’Italia è il punto di riferimento, l’ombelico del mondo pallonaro, la squadra da battere. Campioni del mondo in carica, campioni olimpici in carica a Berlino ’36, le famose olimpiadi di Jessie Owens e campioni della coppa internazionale del 1935. La nazionale di Pozzo è la bandiera del calcio europeo e mondiale. E da padrona della carta europea batte subito con molta fatica a dire il vero la Norvegia e poi rifila un infuocato 3-1 alla Francia che piange lacrime di fine grandeur. In semifinale ecco il Brasile del grande attaccante Leonidas.

Il puma nero Leonidas è una macchina da gol, un Ronaldo brasiliano ante-litteram. Il segno calcistico che il Brasile, per la prima volta, c’è al mondiale. Con tutti i sentimenti e con tutta la sua forza. Perché la forza del Brasile è stata e sempre sarà, il gol.

L’Italia-Brasile del 1938 sembra una partita, ma siamo in Francia e a Marsiglia più precisamente, così diventa un romanzo. Tra le pagine chiare e le pagine scure di questa partita c’è la figura di Ademir Pimenta il trainer del Brasile che lascia inspiegabilmente in panchina Leonidas per farlo riposare per la finale.

I brasiliani annebbiati dalla sicumera, il tratto della personalità che rappresenta la deriva della sicurezza, avevano già prenotato il viaggio per Parigi e lo stadio Colombes. L’Italia mette in mostra quello che sarà il nostro miglior ritratto nella storia del calcio, la capacità di reagire alla difficoltà e sovvertire le avversità. In una parola, l’orgoglio. Meazza ci porta in finale con un rigore romantico calciato mentre il lancio dei pantaloncini si rompe e lui, il Peppin deve reggersi i mutandoni mentre calcia il gol della vittoria. L’Italia è in finale. Di là, nella metà campo avversaria, c’è l’Ungheria del fuoriclasse Sarosi. Il 19 giugno a Parigi va in scena la rivincita annunciata, l’Italia contro il calcio danubiano. Vittorio Pozzo schiera questa formazione: Olivieri, Foni; Rava, Serantoni, Andreolo, Locatelli, Biavati, Meazza, Piola, Ferrari, Colaussi. L’Ungheria di Karol Dietz si schierava con: Szabo, Polgar, Biro, Szalai, Szucs, Lazar, Sas, Vincz, Sarosi, Szengeller, Titkos.

I magiari iniziano tenendo la palla con l’Italia che gioca per recuperarla e partire forte negli spazi con le ali Biavati e Colaussi, velocissime. E’ e sarà il nostro gioco di sempre. Ma gli azzurri però possono giocarla anche a terra con la classe di Meazza e le geometrie di Ferrari. Due modi, diversi, per arrivare a Piola. Il finalizzatore.

Al 6’ minuto l’Italia presenta all’Ungheria il conto di una tattica in cui siamo maestri, il contropiede. Andreolo, il centromediano, recupera a centrocampo e poi apre per il mediano laterale Serantoni il quale allunga per Biavati che corre veloce sulla destra.

L’ala nel calcio deve allungare la squadra. Quando la palla viaggia sul lato tutti gli altri seguono la corsa laterale di uno e alcuni, senza palla, affondano sul versante opposto dove deve arrivare la palla. E lì, sul lato sinistro delle terreno parigino, arriva Colaussi a raccogliere il traversone di Biavati. Gol e Italia in vantaggio. L’Ungheria è tramortita, nonostante pareggi subito. Tramortita perché Meazza cuce il gioco e trama calcio geometrico con Ferrari. Gli ungheresi come dirà poi Pertini in un’altra partita epica del nostro football, non ci riprendono dopo il gol di Piola. Sul 2-1 la partita è nostra. Arriva il 3-1 di Colaussi. E’ la catarsi di un gioco misto è immarcabile per i magiari.

Nella seconda parte il re del calcio danubiano Sarosi accorcia ma non c’è più tempo per organizzare la manovra con tutti i suoi crismi e i suoi sofismi. Piola segna ancora il 4-2 e l’arbitro fischia fine. A Parigi la rivincita dei grandi mittleuropei non c’è stata. L’Italia è ancora campione del mondo.

 

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