Campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo

Posted By on Ott 15, 2020 | 0 comments


Matteo Quaglini

“Il terzo mondiale dell’Italia non si discute come non si discutono i miracoli veri. Adios, intanto, tia España, adios”. Così, con questa frase finale a suggellare il trionfo Gianni Brera chiuse sulle pagine di Repubblica la sua corrispondenza finale dalla Spagna e da un mondiale storico. Il vate del giornalismo sportivo raccontò, in una frase, un campionato del mondo epico costruito passo dopo passo da sette partite che la nostra storia pallonara ha messo nella sua memorabila di sempre. Era l’anno del signore 1982 e il giorno era il 13 a evocare fortune che proseguivano dalla sera prima quando l’Italia del vecio Enzo Bearzot, nella notte “loca y magica” del Santiago Bernabeu era diventata per la terza volta campione del mondo. La Spagna, come la raffigurò l’altro Giannino nazionale dopo Rivera, era diventata per noi una zia. Una zia all’inizio vecchia e desertica, un po’ arida e acre, poi col passare dei giorni cara, di quelle che ti coccolano, di quelle che ti viziano, di quelle che di ora in ora ti amano sempre più.

E anche noi che all’inizio del viaggio iridato eravamo impauriti prendemmo sempre più confidenza, corteggiandola e amandola con sempre maggior forza e amore quella Spagna che sembrava non essere più, col passare delle ore, una zia burbera. Ci accasammo a Vigo, nella Costa Atlantica della Galizia, porto commerciale e di pesca della Spagna che guarda a Occidente come ai tempi dell’Impero di Filippo II dove batteva sempre il sole. Fu un inizio difficile, ripido e dal passo anonimo. Tre pareggi contro la grande Polonia di Boniek e Lato, lo scorbutico Perù e il Camerun che studiava il suo ruolo futuro da “Leoni indomabili” delle notti magiche italiane. Non incantammo, anzi. Quello che raccolse l’Italia di Bearzot furono frammenti rotti di un vaso di coccio appena caduto: gioco inesistente, polemiche giornaliere con la stampa, critiche feroci al cittì per via della fiducia data ad “un signor Rossi” qualsiasi visto che del vecchio Pablito d’Argentina non c’era più niente.

Eravamo spacciati. Senza idee e senza gioco confinati nel girone dei campioni del mondo per acclamazione del popolo che mangia e respira pane e pallone. Il Brasile tre volte campione e l’Argentina regina in carica sul trono del mundial. La stampa, come nel più classico catastrofismo italiano, ci dava per già eliminati: Come potevamo segnare e vincere contro Socrates, Falcao, Zico, Junior, Maradona, Fillol, Tarantini, Passarella e Kempes? Come potevamo noi figli del contropiede per giunta di qualità non eccelsa quasi stantia, superare due squadre che controllavano il gioco con la loro tecnica da università del football? E ancora, come potevano i nostri giocatori costruire trame di gioco se non avevano messo in campo neppure una minima idea di calcio? Domande che ronzavano nella testa del guerriero Tardelli, del maestro dei portieri Zoff, dell’intelligente e sopraffino Scirea, di Gentile il marcatore, dei creatori di Conti e Antognoni. Domande alla Amleto, dubbi che ingigantivano gli avversari facendoli sembrare insormontabili mostri mitologici. Il Sarrià di Barcellona sarebbe stato il teatro della nostra sfida al calcio sudamericano.

Il 29 giugno 1982 giocammo contro i campioni del mondo argentini. Dall’altra “mitad della cancha” come avrebbero detto i narratori del paese di Borges e Gardel, c’era El Pibe Diego Armando Maradona. L’Argentina aveva faticato nel primo girone perdendo contro il Belgio all’esordio, per Menotti e i suoi “caudillos” era necessario battere l’Italia e poi giocarsi la supremazia sudamericana e il mondiale con i rivali di sempre. Il primo tempo fu pari con un piccolo vantaggio italiano: Gentile non faceva muovere Maradona. Anni dopo quella marcatura a uomo avrebbe fatto discutere per la sua durezza, anche se non fu mai scorretta. In quel momento, invece, rappresentava un mattoncino su cui costruire il nostro castello di speranze.

Fermati i mariscales sulla nostra trequarti potevamo scatenare il contropiede pensato dai piedi chirurgici di Conti e dal principe signore di Firenze Giancarlo Antognoni, ma con Rossi ancora fermo e inoffensivo al centro dell’area per completare la nostra azione da “vento contrario” ci volevano gli inserimenti dalla seconda e dalla terza linea. Mentre gli argentini pensavano a come uscire dalla secca del loro sterile controllo della palla, noi li colpivamo in contro-gioco prima con un rasoterra di Tardelli e poi con un tiro a mezz’altezza di Cabrini dopo due veroniche di Conti che mandavano a spasso Fillol e Olguin, 2-0 con Passarella non più in grado di dirottare la nave albiceleste sulle rotte del campionato del mondo.

Avevamo svoltato, ingranato la marcia ed eravamo inaspettatamente sulla strada della semifinale. Ci aspettava il Brasile determinato più che mai a riprendersi, dopo dodici anni, lo scettro mondiale. Il 5 luglio 1982 suonavano gli inni nel catino barcellonese: L’inno di Mameli e la Marcha Triunfal apripista, pensavano i brasiliani, del trionfo del miglior centrocampo del mondo eretto ad architrave della inevitabile vittoria del grande progettista Tele Santana. Pensavano, come nel 1938, di aver già vinto. Lo pensavano talmente tanto che non si procurarono nemmeno del pareggio che gli sarebbe bastato per arrivare in semifinale.

Nel calcio come nella vita arriva un momento in cui ci confronta con un avversario più forte di noi: è la prova estrema e decisiva per capire chi siamo, se possiamo farcela, se i nostri sogni sono veri e profondi, se abbiamo una possibilità di vittoria. Lì in quel momento, nel “mano a mano” con la vita e con il rivale ci vuole il cuore oltre l’ostacolo prima ancora che la tecnica o la tattica.

Il vecio Bearzot dall’alto della sua esperienza internazionale conosceva questo vecchio adagio del mondo magico della strada. E lo insegnò agli azzurri, silenti e polemici con la stampa di quei giorni caldi di Spagna. Per imparare una lezione occorrono due cose: concentrazione silenziosa ma attenta e fiducia in sé stessi per metterla in pratica. E’ qui, nel momento che nessuno aspetta che bisogna venire fuori. Da sconosciuto signor Rossi, Paolo da Prato torna il Pablito d’Argentina e di Vicenza. Tre gol di testa e di piede per battere il calcio chiamato col suo vero nome, Brasile. Il finale di partita sotto il caldo torrido è convulso, i brasiliani pareggiano con Falcao e poi cercano la vittoria che ne avvalori il narcisismo. Al terzo gol di Rossi la torcida è impietrita come le statue di sabbia dei mongoli di Gengis Khan. Il maestro dei portieri Zoff para sulla linea il colpo di testa di Oscar e l’Italia derisa e bistrattata è in semifinale.

Battuta al Camp Nou la Polonia troviamo in finale la solita, granitica, non spettacolare ma tenacissima Mannschaft, la Germania di Breitner e Karl-Heinz Rummenigge che ha ridato vita, a Siviglia, ai tempi degli scontri guerreschi con la Francia. Una epica calcistica finita ai rigori che deluse le roi Michel Platini come i marescialli di Napoleone delusero l’imperatore a Dresda nella battaglia di Germania per il controllo dell’Europa nel 1813.

Dopo tante battaglie d’avanguardia arrivò il tempo dello scontro campale nella Madrid di re Juan Carlos I di Borbone. Il Santiago Bernabeu stracolmo, Pertini Presidente della Repubblica in tribuna, una squadra convinta finalmente della sua forza e un telecronista in cabina a raccontare la quarta finale italiana ad un mondiale di calcio. Tutte immagini della “noche madrilena”. Tutti iconografie della vittoria più bella. Come con l’Argentina l’Italia esce nel secondo tempo. Quando segna Rossi di testa dentro l’area piccola, il rigore sbagliato da Cabrini è già un ricordo lontano. Il capocannoniere del mondiale ha portato avanti di un gol “Azzurra”, la partita è nelle mani degli italiani.

Poco dopo arriva il secondo gol dove c’è tutta la nostra scuola di calcio: contropiede lungo, uscita con mezza squadra, Scirea e Bergomi che si passano la palla nell’area tedesca facendola guardare, come se fosse una pallina di tennis, da una parte all’altra a Kaltz, Stielike e Schumacher. Quando il pallone esce dall’area piove sul piede di Tardelli: mezza spaccata e la lunga traiettoria che finisce nell’angolo. Madrid è italiana!

Ancora due gol prima del fischio finale. Uno di Altobelli dopo una lunga fuga sulla destra di Conti e l’altro di Paul Breitner per la rete della bandiera teutonica. Pertini si alza ed esulta in tribuna esclamando il famoso “Non ci riprendono più”. E’ il momento dell’ultima immagine: l’arbitro raccoglie a due mani il pallone passato da Causio e Martellini butta la cartellina che aveva preparato in caso di vittoria e come lui racconterà incide, sul momento, “campioni del Mondo, campioni del mondo, campioni del mondo” che rimarrà per sua stessa ammissione l’espressione più bella della sua carriera. L’Italia ha vinto il suo terzo mondiale: Adios Tia Espana, aveva scritto Brera. Ancora oggi cara zia sei nei nostri cuori.

 

 

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